Mondo
Centinaia di studentesse intossicate in Iran, non si fermano le proteste
Intossicamenti a cascata per le studentesse all’interno degli Istituti di scuola superiore sparsi in tutto l’Iran da parte di “qualcuno” che desideroso di vietare l’istruzione alle donne genera panico con la strategia del veleno. Sarebbero centinaia le studentesse intossicate in Iran.
Ad Akhundi, nella provincia del Kermanshah, una studentessa mette in pericolo la propria esistenza tirando giù la bandiera dell’Iran dalla facciata del suo liceo femminile. Le stesse scene e gli stessi atti di coraggio da parte delle donne iraniane si ripetono da mesi nelle maggiori città del Paese, dalla capitale Teheran a Rasht affacciata sul Mar Caspio. Anche le famiglie delle studentesse sono scese in strada: interi nuclei familiari protestano strenuamente davanti al ministero dell’Istruzione, accusando i suoi rappresentanti di attuare strategie volontarie di avvelenamento. Sarebbero centinaia le studentesse intossicate deliberatamente in Iran, per “convincere” le loro famiglie a ritirarle dalle scuole femminili e provocarne la conseguente chiusura.
Continua la piena di rabbia e lo scontento di chi anela il crollo del regime degli ayatollah, le cui azioni si configurano sempre più chiaramente come un piano di avvelenamento di massa, poiché si vuole negare alle donne iraniane il diritto all’istruzione, prendendo ispirazione dalla condizione tragica delle donne afghane, ormai relegate a fantasmi di una società che non riconosce nemmeno i loro tratti somatici, figuriamoci la loro istruzione.
Sui social media, dove e quando possibile, appaiono centinaia di video di denuncia in cui le figlie indomite dell’Iran svengono, non riuscendo a respirare e indebolite da nausea e mal di testa lancinanti. L’hashtag #IranianSchoolHolocaust nelle ultime ore è diventato virale.
Per comprendere il fenomeno basta menzionare un numero: più di 800 ragazze ricoverate per crisi respiratorie. Nessuna di loro risulterebbe in gravi condizioni, solo una di loro è deceduta settimane fa. L’avvelenamento a tappeto è iniziato ormai tre mesi fa non a caso dalla città santa di Qom, simbolo della teocrazia iraniana, per poi continuare nella provincia occidentale di Hamedan in quella a nord di Alborz, a sud nella zona di Farsal fino a coinvolgere un altro paese confinante come l’Azerbaigian occidentale.
Continua imperterrito il pugno duro della polizia contro le manifestazioni del popolo al suono di slogan come: “Guardie della Rivoluzione, Basij, siete come l’Isis!”. L’Onu già nelle scorse settimane ha richiesto un’indagine trasparente, tuttavia il Governo con a capo il presidente Ebrahim Raisi ha chiesto all’Intelligence di indagare sui “veri responsabili” degli avvelenamenti, che ha definito “l’ennesima cospirazione del nemico per creare paura e disperazione nella gente”.
Francesca Pia Lombardi
Mondo
Tajani: «nel 2019 Salvini fu fondamentale per l’elezione di Von der Leyen»
Dopo lo j’accuse di Marine Le Pen a Giorgia Meloni in occasione di una convention leghista, sabato scorso, Antonio Tajani torna sul tema alleanze rendendo noto che Salvini nel 2019 rivestì un ruolo cruciale nell’elezione di Ursula von der Leyen.
La resa dei conti interna alla coalizione di centrodestra si consuma all’estero, soprattutto in tema di alleanze nel prossimo Parlamento Europeo. Tra le diverse cause di frizione tra Matteo Salvini, da una parte, e Giorgia Meloni ed Antonio Tajani, dall’altra, quale coalizione sposare in Europa: se FdI e FI sono indirizzati sulla strada che conduce al Partito Popolare Europeo e Ursula von der Leyen, la Lega è saldamente schierata con i nazionalisti, da Le Pen a Wilders, passando per Orbàn.
Una spaccatura tenuto a stento sotto traccia nei mesi scorsi, ma diventata evidente dopo lo j’accuse in occasione dalla convention leghista “Winds of change” (nella quale Macron è stato definito da Salvini «guerrafondaio», ndr), tenutasi sabato scorso. Durante l’evento, è intervenuta in videoconferenza proprio Marine Le Pen, la quale ha prima confermato l’appoggio all’alleato d’oltralpe e poi rivolto un messaggio polemico a Giorgia Meloni: «Sosterrà o meno un secondo mandato della presidente della Commissione Europea? Io penso di sì, e penso anche che l’unico che si opporrà alla politica catastrofica di Von Der Leyen è Matteo Salvini». Il leghista non glissa, ma rilancia: «gli italiani che sceglieranno la Lega non sceglieranno mai un altro mandato di Von Der Leyen».
A molti è sembrato un chiaro messaggio rivolto ai propri alleati, ai quali oggi ha risposto in maniera sibillina Antonio Tajani, rendendo noto un retroscena del 2019: Matteo Salvini, secondo il reggente degli azzurri, rivestì un ruolo cruciale nell’elezione di Ursula von der Leyen. Ancora una volta, ad intimorire Salvini e le destre europee era lo “spettro rosso”: la possibile elezione del socialista olandese Tiemmermans, nonostante la vittoria del Ppe e le indicazioni dei gruppi parlamentari che vertevano su von der Leyen.
«Uno stravolgimento inaccettabile. Anche il premier italiano Giuseppe Conte aveva preso parte a quell’accordo che tradiva l’indicazione dei gruppi parlamentari. Siccome Conte poggiava ancora su una maggioranza in cui la Lega era fondamentale, chiamai Salvini chiedendogli di intervenire» ha rivelato Tajani a Tagadà su La7.
Sarebbe stato dunque Salvini, con un’opera di persuasione, a convincere gli alleati di allora, il Movimento 5 Stelle, a ritirarsi da quell’accordo e a fargli mancare i numeri, spianando di fatto la strada all’attuale presidente.
Mondo
La corte del Regno Unito prende tempo sull’estradizione di Assange
Si apre uno spiraglio per il fondatore di Wikileaks Julian Assange, che rischia fino a 175 anni di carcere negli Sati Uniti in caso di estradizione. L’Alta Corte britannica ha accolto in parte il ricorso presentato dai suoi legali.
Dopo il ricorso presentato il mese scorso, l’Alta Corte del Regno Unito ha accolto parzialmente il ricorso di Julian Assange contro la sua estradizione negli USA. Il fondatore di Wikileaks, attualmente rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, rischia fino a 175 anni di carcere negli Stati Uniti. E’ accusato di diffusione di oltre 700mila documenti classificati, ma anche di favoreggiamento e cospirazione insieme a Chelsea Manning, l’informatore che glieli aveva consegnati.
Ora Assange potrà appellarsi qualora Stati Uniti e Regno Unito non siano in grado di fornire alla Corte le rassicurazioni richieste, ovvero il rispetto del Primo Emendamento (libertà di espressione) durante la decisione, il rispetto della sua nazionalità e l’esclusione a priori della pena di morte. Washington ha tre settimane di tempo per soddisfare queste richieste.
Questa sembra al momento l’ultima chance rimasta al giornalista per evitare l’estradizione. Qualora nemmeno questa bastasse, potrebbe tentare la strada dell’appello alla Corte europea dei diritti umani che potrebbe bloccare il trasferimento fino a una sua decisione sul caso. Amnesty ha già bollato le promesse del governo americano sul caso come «intrinsecamente inattendibili».
La decisione dei giudici londinesi rappresenta un controribaltone: nel 2021 avevano infatti respinto la richiesta di estradizione, dati i possibili rischi per l’incolumità di Assange, per poi accettarla l’anno successivo. La decisione di oggi potrebbe rimettere tutto in discussone.
Nel 2010, grazie a Manning, Assange ha messo le mani su oltre 470mila documenti militari secretati sulla guerra in Afghanistan e in Iraq, e altri 250mila dispacci diplomatici, e li ha pubblicati sulla banca dati aperta e cifrata di WikiLeaks. Il giornalista ha sempre motivato il gesto come denuncia dei crimini e degli errori commessi dai governi occidentali, mentre per gli Stati Uniti ha messo a rischio l’incolumità delle persone che hanno agito come fonti di informazione.
Mondo
Bezos supera Musk: è lui l’uomo più ricco al mondo
Se Tesla ha subito un rilevante calo in borsa nel 2023, Amazon ha continuato a macinare risultati da capogiro.
Dopo due anni, Elon Musk cede il primato della classifica di paperoni e scivola al secondo posto: è Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo. Il patron di Tesla paga il calo in borsa del marchio, ma anche gli investimenti su X e gli esperimenti di Neuralink. Amazon invece continua a vendere a tutto spiano, anzi di più, ed il valore delle sue azioni è cresciuto e rischia di infrangere ogni record.
Musk cede la posizione dopo due anni, ma non è il caso di preoccuparsi per la tenuta delle sue finanze: a 197,7 miliardi di dollari ammonta il suo patrimonio, secondo le stime del Bloomberg Billionaire Index. Quello di Bezos, considerato ora l’uomo più ricco al mondo, è di 200,3.
Dietro al derby statunitense, un francese: il patron del colosso francese del lusso Lvmh Bernard Arnault, il cui patrimonio è stimato in 197,5 miliardi di dollari.
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