Attualità
Di Battista rifiuta la candidatura, il Movimento non ha più grillini
Alessandro Di Battista, con un video in cui ha tuonato contro il padre-padrone Beppe Grillo, ha reso noto che non presenterà la propria candidatura con il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni. Sembra terminata l’epopea dei grillini, con un movimento in cerca della strada verso le origini, ma senza i volti e i nomi che l’hanno accompagnato in questo periodo.
L’evoluzione del Movimento 5 Stelle è stata così rapida e repentina, che a meno di dieci anni dal suo trionfale ingresso in Parlamento, sembra aver già esaurito la sua forza propulsiva, per usare un linguaggio d’altri tempi. Da forza antisistema, si è trasformata in alternativa del sistema, per poi venire fagocitata dal sistema stesso, al punto che adesso sta faticando non poco a scrollarsi di dosso l’etichetta di partito delle grandi intese. L’attuale campagna elettorale rappresenta la prova delle urne più difficile che il Movimento abbia mai affrontato e la farà cercando di rilanciare i temi delle origini, ma senza i nomi e i volti divenuti familiari in questi anni. L’ultimo ad abdicare in ordine di tempo, Alessandro Di Battista, uno tra i primi rampolli della dinastia dei grillini, che proprio contro il padre-padrone Beppe Grillo si è scagliato con veemenza, indicandolo come uno dei motivi per il quale non presenterà la propria candidatura.
Il Movimento 5 Stelle è impegnato nella prima campagna elettorale in salita della sua storia, nella quale dovrà cercare di rilanciarsi facendo a meno della carica attrattiva esercitata dal suo fondatore. Beppe Grillo non fa più presa sulle masse come un tempo e la sua presenza è diventata ingombrante per chi è rimasto. Non che prima non lo fosse, ma esercitava un potere di persuasione più forte ed aveva gioco più facile a placare il dissenso e mettere in riga le voci fuori dal coro.
Nel corso del tempo, tra epurazioni, litigi e cambi di casacca, si sono andati via via staccando pezzi importanti. Prima la dipartita prematura di Casaleggio padre, poi la separazione con Casaleggio figlio, infine le fuoriuscite eccellenti. L’addio al veleno, o meglio la mancata accettazione a ritornare e presentare la propria candidatura, da parte di Alessandro Di Battista, rappresenta bene il mutato equilibrio interno ai pentastellati.
Sembrano passati secoli da quando la prima delegazione, capeggiata dai capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi, si permetteva di spernacchiare in diretta streaming Enrico Letta e Pier Luigi Bersani, all’epoca segretario uscente del Pd. Erano forti, avevano una base elettorale densa e consistente. Uno zoccolo duro di irriducibili nudi e crudi che si attestò ben oltre le previsioni, superando il 25% dei consensi. Era il 2013 e solo cinque anni dopo, nel 2018, questo incredibile risultato elettorale sarebbe stato addirittura superato: più del 32%. Che nel 2022 il trend possa essere ancora positivo è pressoché impossibile e i membri del Movimento stanno sudando sette camicie per limitare i danni e fermare l’emorragia elettorale che, secondo i sondaggi, porterà i pentastellati al loro risultato peggiore, addirittura sotto al 10% secondo i catastrofisti. E questo avendo completato la riforma manifesto del programma, il Reddito di Cittadinanza. D’altronde per una forza che si è presentata sotto lo slogan “avanti da soli” è difficile far capire il motivo per il quale hanno governato prima con la Lega, poi il con il Pd ed infine hanno appoggiato un governo di unità nazionale.
Cambierà di molto la composizione del gruppo parlamentare. Meno seggi, occupati da volti nuovo. I superstiti di queste due legislature sono seconde linee che ancora non sono stati bruciati dal vincolo dei due mandati, oppure si sono aggiunti in corsa. Un nome su tutti, quello del due volte presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Scelto come capo del governo gialloverde, l’ex avvocato del popolo non proveniva dalla galassia dei grillini. Quelli, specie della prima ora, non ci sono quasi più. Così come non ci sono più i nomi forti. Luigi Di Maio, l’enfant prodige della politica italiana per alcuni, il bibitaro che ce l’ha fatta per altri, non è più parte del Movimento e correrà insieme al democristianissimo Bruno Tabacci, sotto le insegne camuffate del Pd, quel partito di Bibbiano con cui aveva giurato che non avrebbe mai avuto nulla a che fare. Il già citato Alessandro Di Battista, che in Parlamento non è mai entrato, ha abbandonato il Movimento in seguito ai diverbi con Conte e in questi giorni ha reso noto, scagliandosi con veemenza contro il padre-padrone Grillo, che non farà la parte del figliuol prodigo e non presenterà la sua candidatura. Forte di acquisita visibilità, sembra più intenzionato a seguire più la sua nuova carriera di giornalista che quella di politico. Nomi come quelli di Favia o Pizzarrotti sono ancorati alla preistoria. Quelli di Virginia Raggi e Chiara Appendino invece sono da rilanciare. Altri nomi in ordine sparso che non ci saranno più tra gli scranni gialli sono quelli di Stefano Buffagni, Paola Taverna, Roberto Fico, Danilo Toninelli, Carlo Sibilia, Alfonso Bonafede, Gianluigi Paragone e Nicola Morra, giusto per citarne alcuni.
Urge un rimpasto delle fila, ma mancherà la spinta creata dall’effetto novità, anche se saranno nuovi i suoi componenti. Più sconosciuti, che debuttanti. È venuta poi a mancare anche la forza data purezza delle origini, che si aggrappava agli scranni dell’opposizione piuttosto che cercare un compromesso in Parlamento. Ma è venuta a mancare soprattutto la spinta del fondatore Beppe Grillo, che ha via via preso le distanze dalla sua creatura. Adesso la presenza, altalenante, dell’elevato è diventata quasi ingombrante per chi vuole amministrare ciò che resta. Il Movimento 5 Stelle è rimasto privo di un esoscheletro robusto: con un faro che lampeggia ad intermittenza, una community elettorale dispersa e con una storica lacuna dal punto di vista di capillarizzazione e presenza sul territorio, non è chiaro cosa ne sarà di un Movimento uscito malconcio dalla prova di governo. La scatoletta ha rotto l’apriscatole.
Attualità
Giornalista accusa di violenza sessuale i colleghi Nello Trocchia e Sara Giudice
Al termine della festa di compleanno della giornalista Rai Sara Giudice, sposata con Nello Trocchia di Domani, una collega sarebbe stata molestata sessualmente a bordo di un taxi dalla coppia su di giri. I due rigettano le accuse, parlano di effusioni consenzienti e annunciano una causa per calunnia. Sentito il tassista, che avrebbe descritto tutti i giornalisti come persone brille, ma non avrebbe confermato la violenza sessuale.
Una festa in un locale, alcol che scorre e tanti giornalisti presenti. Impossibile vederci chiaro, ma proviamoci. Una giornalista ha denunciato di violenza sessuale i colleghi Nello Trocchia e Sara Giudice: i due giornalisti, marito e moglie, le sarebbero saltati addosso in taxi, durante il tragitto di ritorno. Lei dopo un iniziale momento di paralisi, si sarebbe ridestata e si è fatta accompagnare a casa, dove avrebbe detto tutto al suo compagno. Si sentiva molto scossa, intorpidita e non completamente cosciente delle sua azioni, forse sotto l’effetto di qualche sostanza. I due giornalisti hanno rigettao le accuse ed hanno annunciato che denunceranno la collega per calunnia.
La vicenda è stata resa nota dal quotidiano La Verità. In base all’accusa della ragazza, questa sarebbe stata invitata alla festa di compleanno di Giudice, dove si sarebbe recata proprio in compagnia della coppia. La serata sarebbe scorsa tra danze e brindisi. Qualche allusione e qualche ammiccamento, ma in generale tutto tranquillo, fino al momento di rientrare a casa. I tre salgono su un un taxi: marito e moglie ai lati, la ragazza nel mezzo. I due le avrebbero messo le mani addoso, cominciando a palpeggiarla e baciarla. Lei sarebbe rimasta inizialmente spiazzata ed immobile. Solamente arrivati sotto casa dei due si sarebbe ripresa e si sarebbe fatta accompagnare a casa, dove ha raccontato tutto al fidanzato. Questi l’avrebbe accompagnata in un laboratorio per analizzare le sue urine. Il responso è positivo al Ghb, ovvero la droga dello stupro. Ma il controesame della procura dà esito negativo, anche s la difesa ne contesta la metodologia.
Nel frattempo viene sentito anche il tassista. Avrebbe confermato che i tre sembravano tutti alticci e che si sono scambiati effusioni sul sedile posteriore. Ma non gli sarebbero sembrati forzati. Poi la ragazza è tornata sul mezzo e gli è apparsa molto scossa.
Trocchia, interrogato, ha confermato in gran parte gli avvenimenti di quella serata. Ma ha aggiunto che baci e palpeggiamenti sarebbero stati consenzienti. Secondo il giornalista la ragazza, poco lucida a causa dell’alcol, in un primo momento avrebbe accettato le attenzioni di marito e moglie, ma poi avrebbe cambiato idea. Trocchia avrebbe anche depositato gli screenshot delle conversazioni avute con la ragazza, un paio di giorni dopo: «Tesò come stai? Io ancora con rum in circolo. Sono due giorni che cerco cappello di Sara» le chiede lui su WhatsApp. «Maronn io sto inguaiata oggi, sto impazzendo appresso agli sfrattati» le avrebbe risposto lei. Secondo Sara Giudice sarebbe stata proprio lei a prendere l’iniziativa.
La Procura avrebbe richiesto l’archiviazione, ma la denunciante si sarebbe opposta.
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Meloni «pericoloso dire che le radici della strage di Bologna sono nella destra di governo»
Duro affondo di Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione famigliari delle vittime della strage di Bologna: «Le radici di quell’attentato, affondano nella storia del postfascismo italiano, in quelle organizzazioni che oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo». La replica di Giorgia Meloni: «attacchi ingiustificati e fuori misura, pericolosi anche per l’incolumità personale di chi è stato eletto». La controreplica: «basta fare la vittima»
Come ogni 2 agosto, questa mattina a Bologna si è tenuta una cerimonia di commemorazione per le vittime dell’attento alla Stazione del 1980, nel quale morirono 85 persone e ne rimasero ferite più di 200. Come spesso accaduto in passato, le polemiche hanno coinvolto gli esponenti di governo. Sono le parole del presidente dell’associazione famigliari delle vittime della Strage di Bologna Paolo Bolognesi ad accendere la miccia: «Le radici di quell’attentato, come stanno confermando anche le ultime due sentenze d’appello nei processi verso Gilberto Cavallini e Paolo Bellini, affondano nella storia del postfascismo italiano, in quelle organizzazioni nate dal Movimento Sociale Italiano negli anni cinquanta: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale oggi figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo. Per questa parte politica, lo stragismo e in particolare la strage di Bologna, rappresentano una macchia da togliere a tutti i costi dalla loro storia, da negare oltre ogni evidenza».
Un duro affondo, nonostante in mattinata Giorgia Meloni avesse rilasciato una dichiarazione nella quale finalmente condannava le «organizzazioni neofasciste» per «uno degli eventi più drammatici della storia nazionale». A molti non è però sfuggita una puntualizzazione fatta dalla premier: a colpire il 2 agosto 1980 fu il «terrorismo, che le sentenze attribuiscono ad esponenti di organizzazioni fasciste». Un distinguo che sembra quasi non voler esprimere un giudizio politico e storico, ma teso più che altro a ributtare la palla nel campo del dibattito processuale, come a mettere le mani avanti in vista di una futura revisione, o di un futuro revisionismo. A qualcuno è sembrato un riconoscere la matrice a metà.
Meloni ha poi replicato a Bolognesi dicendosi «personalmente colpita» da «attacchi ingiustificati e fuori misura». Meloni ha affermato che «Sostenere che le radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo, o che la riforma della giustizia varata da questo governo sia ispirata dai progetti della loggia massonica P2, è molto grave. Ed è pericoloso, anche per l’incolumità personale di chi, democraticamente eletto dai cittadini, cerca solo di fare del suo meglio per il bene di questa Nazione. In questo clima di crescente odio le parole e i gesti stiano sfuggendo di mano anche alle persone più avvedute». Infine un «appello a tutti perché si torni all’interno di una cornice di normale dialettica in quella che, grazie ai sacrifici di tanti, è ormai una democrazia solida e matura».
A queste parole è arrivata la controreplica del presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime della Strage di Bologna: «La finisca di fare la vittima. Ho visto altri fare le vittime durante i processi e poi sono stati condannati, le vittime sono gli 85 morti e i morti nelle altre stragi, che sono tutte fasciste. Non è una vittima, ma una che prende in giro le vittime» ha detto ad Ansa Paolo Bolognesi.
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Frattura bloccata con una scatola di cartone a Messina, Schifani: «chiedo scusa a nome della Regione»
Caso di malasanità che ha dell’incredibile quello accaduto all’ospedale Barone Romeo di Patti, in provincia di Messina: la frattura al perone di un paziente è stata bloccata con una scatola di cartone, per mancanza di stecche per gli interventi di urgenza.
Il caso riportato da Gazzetta del Sud, ha già suscitato scalpore sui social. All’ospedale Barone Romeo di Patti , in provincia di Messina, una frattura è stata bloccata con una scatola di cartone. Nell’ospedale mancavano le stecche per gli interventi di urgenza. A Il paziente era un ragazzo che aveva riportato una frattura al perone. Successivamente, all’ospedale di Messina, la scatola ha lasciato posto ad un tutore.
Sulla vicenda si è espresso il presidente di Regione Sicilia Renato Schifani, che ha comunicato di aver dato disposizioni per l’avvio di un’ispezione per risalire ai responsabili: «Ho parlato col genitore del ragazzo, ho chiesto scusa a nome della Regione siciliana. Non ce l’ho con i medici, so bene che sono di frontiera e lavorano in condizioni a volte molto complicate. Ma sarò implacabile con i responsabili non appena avrò l’esito dell’ispezione che ho disposto».
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