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Cronaca

«L’agenda rossa di Borsellino era nascosta a casa La Barbera»: perquisizioni dopo le nuove testimonianze

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Il Tribunale di Caltanissetta ha disposto perquisizioni in casa della moglie e di una delle figlie dell’ex capo della Squadra Mobile di Palermo, al centro di diverse teorie investigative.

L’agenda rossa di Paolo Borsellino, le cui ricerche sono cominciate pressoché in concomitanza con la strage di via d’Amelio e che investigatori e testimoni sono sicuri non essere andata distrutta, sarebbe rimasta nascosta, almeno per un periodo, nella casa di Arnaldo La Barbera, ex capo della Squadra Mobile di Palermo, già coinvolto dalle indagini sui depistaggi.

Il Tribunale di Caltanissetta ha disposto perquisizioni domiciliari a casa della moglie e di una delle figlie di La Barbera, scomparso nel 2022: dell’agenda rossa non c’è traccia, ma il personale del Ros ha portato via una discreta quantità di documenti. Gli inquirenti sarebbe entrati nelle case delle famigliari dell’ex capo della Mobile palermitana, a Roma e Verona, in seguito alle dichiarazioni di una persona vicina alla famiglia La Barbera.

La vicenda richiama in causa ancora una volta quella del carabinierie Giovanni Arcangioli, immortalato con la valigetta del magistrato pochi minuti dopo l’attentato. Arcangioli finì sotto inchiesta per furto. Secondo le nuove testimonianze in mano agli inquirenti, Arcangioli avrebbe consegnato la valigetta ad un ispettore di Polizia, che rivendicava la paternità dell’indagine essendo arrivato sul posto prima dei Carabinieri. Valigetta che in un primo momento venne dichiarata distrutta. Fu La Barbera a dirlo ai famigliari di Borsellino. Cinque mesi dopo però la valigetta fece la sua ricomparsa nell’ufficio di un dirigente della Squadra Mobile. Cinque mesi nei quali Arcangioli non scrisse la sua relazione sull’accaduto.

Quando La Barbera riconsegno la valigetta alla famiglia, la figlia del magistrato chiese conto dell’agenda rossa del padre. La Barbera ne negò perfino l’esistenza, consigliando assistenza psicologica alla ragazza. Commentando questo episodo i giudici di Caltanissetta scrivono: «Il capo della squadra mobile La Barbera ebbe un comportamento veramente inqualificabile: dapprima disse alla vedova Borsellino che la borsa del marito era andata distrutta e incenerita nella deflagrazione, salvo poi restituirgliela diversi mesi dopo, negando in malo modo l’esistenza di agende rosse. […] A fronte dell’insistenza della ragazza, che usciva persino dalla stanza sbattendo la porta, il dottor La Barbera, con la sua voce roca, disse alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto delirava e farneticava. Un atteggiamento che rivelava non solo un’impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche un’aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino».

La Barbera è stato al centro delle inchieste sui depistaggi sulla strage di via d’Amelio. Secondo gli inquirenti, sarebbe stato il regista che ha manovrato il falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni contrastanti non hanno fatto altro che rimescolare le acque già torbide delle indagini.

Cronaca

Strage di Paderno Dugnano, il ragazzo che ha sterminato la famiglia: «non me lo so spiegare»

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Il 17enne è stato sentito dagli inquirenti ed ha avuto un colloquio con il suo avvocato. Non ha saputo indicare un movente preciso per il triplice omicidio, ma ha parlato di «malessere» e di voler «vivere in un modo libero».

Col passare delle ore sono emersi i dettagli relativi alla dinamica della strage di Paderno Dugnano, dove un ragazzo di 17 anni ha sterminato a coltellate il padre, la madre ed il fratello di 12 anni. Ha spiegato nel dettaglio agli inquirenti come si sono svolti i fatti. Ha detto di aver atteso che tutti dormissero prima di agire. Ha raccontato che il piano inizialmente prevedeva di addossare la colpa del triplice omicidio alla madre. Ha anche detto che ha cercato di porre in fretta fine alle loro sofferenze e che non immaginava che potesse essere così doloroso. Ma non ha ancora saputo spiegare il perché li abbia uccisi.

Ai pm che lo hanno interrogato ha detto di provare un senso di «malessere», di sentirsi «oppresso», di i essere convinto che uccidendo la sua famiglia avrebbe «potuto vivere in modo libero». Ha anche accennato ad una sorta di «disagio» e di «angoscia esistenziale». Ma senza un movente chiaro: «Non mi so spiegare cosa mi sia scattato quella sera – aggiunge dal carcere – purtroppo è successo».

Ha però spiegato bene come si sono svolti i fatti. Quando tutti dormivano è sceso in cucina ed ha afferrato un coltello. E’ entrato nella stanza dove il fratellino dormiva. «Pensavo che una coltellata sarebbe bastata a uccidere. Poi mi sono reso conto che non era così». I rumori attirano i genitori. Colpisce anche la madre. Il padre non capisce, dice al figlio di chiamare i soccorsi. E quando si è chinato sul copro del dodicenne, il primogenito lo ha colpito «la prima volta alle spalle». I colpi sono stati inferti «soprattutto nella zona del collo». Per uccidere «perché non volevo che soffrissero». Poi ha chiamato il 112. «Mio padre ha accoltellato mia madre e mio fratello». Il centralinista chiede le loro condizioni: «Sono vivi?» «No, neanche mio padre — risponde il ragazzo —. Sono morti, sono morti». A quel punto l’operatore chiede se «si è ucciso». «No, l’ho ucciso io». Po ha aspettato l’arrivo dei soccorsi. I Carabinieri lo hanno trovato in strada, seduto sul muretto della cancellata, con in mano il coltello.

Da allora, è sorto il grande dubbio. Cosa ha spinto un ragazzo di 17 anni ad uccidere la sua famiglia? Le ipotesi avanzate sono state diverse. Il ragazzo recentemente aveva espresso l’intenzione di andare a combattere in Ucraina, ma è stato lui stesso a dire che il conflitto in est Europa non ha niente a che fare con la strage di Paderno Dugnano. La colpa non sarebbe nemmeno dei videogiochi violenti, come da qualcuno sostenuto. Secondo un suo amico non aveva una grande passione. E nemmeno l’esame per riparare il debito in matematica, prevista proprio per il giorno successivo alla strage, sembrava preoccuparlo molto. Qualcuno ha tirato in ballo anche i Beatles, come nel caso di Charles Manson e l’eccidio di Cielo Drive. E’ stato il ragazzo a dire che negli tempi ascoltava a ripetizione una canzone dei Fab Four. Ma il giovane non ascoltava la frenetica “Helter Skelter”, bensì la struggente “The Long and Winding Road”, che parla di una strada fredda, tortuosa e piovosa, che conduce alla casa di una donna amata in passato. Ed avrà pur fatto litigare MCartney e Lennon e decretato la fine della band, ma difficilmente può aver portato a compiere un triplice omicidio.

So che tutti vi chiedete il perché di quello che è successo, è la grande domanda ma dobbiamo accontentarci di scavare. Un movente sarebbe tranquillizzante. Ma da un punto di vista giuridico al momento non c’è, e non è detto che ci sarà. Da un punto di vista sociologico le indagini sono aperte», ha detto Sabrina Ditaranto, reggente della procura per i minorenni di Milano.

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Omicidio Sharon Verzeni, il 31enne fermato ha confessato

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E’ “l’uomo in bicicletta” il presunto responsabile dell’omicidio di Sharon Verzeni. Ad un mese dal delitto, l’uomo è stato fermato ed ha confessato.

Dopo un mese di piste a vuoto e ricerche apparentemente senza esito, all’improvviso le indagini hanno subito un’accelerazione. Ieri sera un uomo è stato fermato. Poche ore dopo «ha reso piena confessione». Il colpevole dell’omicidio di Sharon Verzeni, la donna lasciata morire per strada lo scorso 30 luglio a Terno d’Isola, nel bergamasco, è “l’uomo in bicicletta”. Si chiama Moussa Sangare, ha 31 anni, italiano, disoccupato. Avrebbe ucciso «senza motivo».

Maria Cristina Rota, procuratrice aggiunta a Bergamo, durante una conferenza stampa ha rilasciato alcune dichiarazioni: «Stanotte al termine di serratissime indagini siamo pervenuti a identificare il signore in bicicletta che nel corso della nottata ha reso prima spontanee dichiarazioni poi una piena confessione». Durante l’interrogatorio, Moussa Sangare ha detto di avere «avuto un raptus improvviso». «Non so spiegare perché sia successo, l’ho vista e l’ho uccisa», ha affermato il trentunenne. Sangare è nato a Milano, ma la famiglia è originaria del Mali. Vive a Suisio, distante appena cinque chilometri dal luogo del delitto.  È accusato di omicidio volontario premeditato.

La procuratrice spiega che l’indagine è «stata agevolata dalla collaborazione di due cittadini stranieri, ma regolari sul territorio italiano, che si sono presentati spontaneamente presso la caserma dei carabinieri e hanno riferito ciò che sapevano. Grazie alla loro dichiarazione e all’analisi di tantissime telecamere è stato possibile tracciare l’intero percorso fatto dal ciclista che è stata poi scenario del crimine». Si tratta di due «cittadini stranieri di origine marocchine inseriti nel territorio, incensurati, due lavoratori, due onesti cittadini che si trovavano sul luogo del delitto e che in realtà inizialmente si sono presentati per segnalare un’altra presenza strana – ha proseguito – ma la prima segnalata non era strana e poi è stata segnalata la presenza del ciclista su cui si è lavorato».

Moussa Sangare quel giorno è uscito per uccidere. Lo dimostrerebbero i 4 coltelli che aveva con sé. Ed il fatto che poco prima ha minacciato due ragazzini minorenni. Sangare avrebbe infatti «come da lui stesso dichiarato, puntato il coltello contro due ragazzini di 15-16 anni, minacciandoli». La procuratrice Rota invita i due ragazzi a «presentarsi in una caserma dei carabinieri o al comando provinciale per riferire se erano presenti e se effettivamente si è verificata questa minaccia».

Dopo aver sventolato il coletto in direzione dei due giovani, avrebbe incontrato Sharon Verzeni e l’avrebbe seguita. Ed avrebbe deciso di colpirla. «Non c’è stato alcun movente, non si conoscevano e non hanno mai avuto contatti» ha reso noto la procuratrice che ha aggiunto: «sentiva l’impulso di accoltellate, sentiva il bisogno di compiere questo gesto. La signora ha avuto la sfortuna di passare di lì, si è trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato».

Dopo essere stata raggiunta da 4 coltellate, è stata la stessa vittima a chiamare il 118: «Aiuto! Mi hanno accoltellata gridato disperata. I soccorsi non hanno fatto in tempo. Dopo un mese di ricerche infruttuose, negli ultimi giorni gli inquirenti hanno cominciato a stringere il cerchio intorno all’uomo immortalato mentre si allontanava velocemente dalla scena del delitto. Dopo essere stato individuato e fermato, “l’uomo in bicicletta” ha ammesso le sue colpe.

«Né durante le dichiarazioni spontanee né durante l’interrogatorio Moussa Sangare ha mai dimostrato di essere sotto l’effetto di sostanze alcoliche o di droghe» aggiunge ancora Rota, che afferma che l’uomo si è detto “dispiaciuto per quello che ha fatto». Le sue dichiarazioni «hanno poi consentito di recuperare sia gli abiti che lui indossava, sia dei coltelli – uno in particolare, che aveva seppellito, già nella disponibilità del Ris – che riteniamo sia il coltello utilizzato per uccidere Sharon. Lo riteniamo in base alla lunghezza e alla larghezza della lama che è compatibile con i segni riscontrati dal medico legale sul corpo».

I famigliari hanno ben accolto la notizia della sua cattura: «Ci solleva e spazza via anche tutte le e speculazioni che sono state fatte sulla vita di Sharon».

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Il comandante del Bayesan ha lasciato l’Italia: le domande ancora aperte

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James Cutfield, al timone del veliero che lo scorso 19 agosto è affondato nelle acque di fronte a Palermo, sarebbe in viaggio verso Maiorca, in compagnia di Tim Parker Eaton, ufficiale di macchina, anch’egli indagato per naufragio colposo ed omicidio colposo plurimo. Il terzo indagato, la guardia di plancia Matthew Griffiths, in viaggio per Nizza.

I membri dell’equipaggio del Bayesan, il veliero affondato di fronte a Palermo il 19 agosto scorso, hanno tutti lasciato il Paese. Tre di essi sono indagati per omicidio plurimo colposo e naufragio colposo. Si tratta del comandante James Cutfield, dell’ufficiale di macchina Tim Parker Easton e dell’uomo che quella notte piantonava la plancia, Matthew Griffiths. Proprio il comportamento tenuto dall’equipaggio è quello che solleva i maggiori dubbi relativi all’affondamento della lussuosa imbarcazione, nel quale sono morte 7 persone. Di queste, una soltanta, il cuoco, era parte della ciurma. Tutti gli altri si sono salvati.

Forse perché, come ha detto Cutfield ai magistrati, erano più preparati. Ma allora perché l’allarme è stato dato con tanto ritardo? Perché il veliero si trovava in rada e non ha cercato maggior riparo? Perché nessuno ha avvisato i passeggeri, che si trovavano assiepati in una sola cabina? Perché il cuoco è stato trovato all’esterno? E’ stato mandato a chiamare gli altri? E ancora, alcuni bocchettoni del Bayesan sono rimasti aperti? Se sì, quali?

Domande alle quali non è ancora possibile rispondere con certezza. Cutfield, in lacrime durante il suo interrogatorio, si è limitato a dire che nessun allarme meteo era stato diramato e che non è scappato, ma che ha dovuto abbandonare la nave quando l’acqua l’aveva ormai completamente invasa.

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