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Le reazioni dopo il voto. Salvini: «premiata l’opposizione», Letta: «mia responsabilità», Calenda: «obiettivo non raggiunto»

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Per la prima volta dall’inizio della campagna elettorale Salvini, Letta e Calenda sono tutti dalla stessa parte: le dichiarazioni dopo il voto sono tutte analisi della sconfitta. Salvini mastica amaro e fa sibillini complimenti alla Meloni. Letta non si dimette, ma non si candiderà al prossimo Congresso, col quale terminerà la sua leadership. Calenda parla di obiettivo non raggiunto, scommette su una nuova intesa Pd e M5S ed assicura un’opposizione netta, ma costruttiva.

Il primo a presentarsi di fronte alla stampa per le dichiarazioni successive al voto, con qualche minuto di ritardo rispetto alle previsioni, è stato Matteo Salvini, dopodiché, senza accavallarsi con le conferenze stampa, hanno parlato, Carlo Calenda ed Enrico Letta.

Il leader della Lega più che fare un’analisi della sconfitta, che spetterà alle discussioni interne, si concentra sulla possibilità di recuperare i consensi perduti: ««Il 9% non mi soddisfa, ma staremo al governo per 5 anni come protagonisti ed abbiamo enormi margini di recupero». In apertura del suo discorso Matteo Salvini ha elogiato Giorgia Meloni, ma più che complimenti sinceri sembrano recriminazioni di carattere politico: «Brava Giorgia e complimenti anche agi amici di Forza Italia e ai moderati. Certo, abbiamo pagato la presenza nel governo Draghi, mentre l’opposizione è stata premiata. Stare al governo è stato complicato, ma lo rifarei. Abbiamo anteposto il lavoro per il Paese agli interessi di partito, ma l’abbiamo fatto convintamente e lo rifaremmo». Salvini glissa sulla debacle del suo partito e si concentra sui prossimi 5 anni nei quali, assicura, ci sarà un governo di centro destra stabile in cui la Lega sarà protagonista. «Sono andato a letto incazzato, ma mi sono alzato carico a molla. Ho il doppia della voglia e dell’energia. E’ un bel gruppo parlamentare».

Terminato l’intervento del leader della Lega, iniziano le conferenze stampa degli altri candidati. Enrico Letta invece, forse anche grazie ad una maggiore esperienza in questo campo, si lancia in una vera analisi della sconfitta. Tante responsabilità, secondo il segretario dem, sono ascrivibili al Movimento 5 Stelle: «Se siamo arrivati al governo Meloni è colpa di Giuseppe Conte che ha improvvisamente tolto la fiducia al governo Draghi». Letta non nasconde le proprie responsabilità e comunica che traghetterà il partito fino al Congresso di marzo, dopodiché terminerà la sua leadership. Ma prima di congedarsi tiene a chiarire un concetto: «Molti partiti e movimenti hanno lavorato contro di noi più che contro il centrodestra, ma non ci sono riusciti. Siamo ancora il secondo partito e il primo partito d’opposizione, che sarà netta e intransigente».

Opposizione netta anche nelle intenzioni di Carlo Calenda, ma non intransigente bensì «costruttiva». Oltre ad alcune lacrime di coccodrillo per l’esclusione dal Parlamento di Emma Bonino («nonostante gli attacchi ricevuti mi dispiace molto»), il leader di Azione è convinto che nei prossimi mesi il Pd «tornerà tra le braccia del Movimento 5 Stelle». Calenda appare soddisfatto, sebbene ammetta di non aver raggiunto gli obiettivi che si era prefisso: «era necessario il 10% per fermare la destra e andare avanti con Draghi». «Continueremo a costruire il polo del “buon governo”, popolare, riformista e moderato. Continueremo a lottare contro un modo di fare politica nel quale vince chi urla più forte e fa più promesse degli altri».

Politica

Gli “scivoloni” di Draghi nelle anticipazioni del libro di Salvini

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Il vice premier è in procinto di consegnare al pubblico la sua ultima fatica letteraria, “Controvento” ed oggi sono uscite alcune anticipazioni sul rapporto non proprio idilliaco con Mario Draghi, tra cui la scarsa condivisione da parte del premier sulle scelte di governo, la decisione di “salire al colle” e le divisioni in materia fiscale.

Lo presenterà il prossimo 25 aprile a Milano. Probabilmente non aveva segnato nulla in agenda ed ha approfittato del giorno di festa. Anche perché non è una data in cui il segretario federale della Lega può trovare facilmente una sagra che lo ospiti. Quel giorno le grigliate gli risulterebbero un po’ indigeste, quindi Matteo Salvini resterà in città e presenterà il suo libro “Controvento. L’Italia che non si arrende”, edito da Piemme. Oggi, sono uscite alcune succulenti anticipazioni, nelle quali Salvini affronta il rapporto con Mario Draghi.

Un rapporto incrinatosi subito. «Al di là della cortesia dei primi approcci, il premier Draghi scelse di non condividere con i segretari dei partiti nemmeno la scelta dei ministri. Ricordo che ero a casa quando squillò il telefono. Palazzo Chigi. Da lì a dieci minuti, i nomi degli aspiranti ministri sarebbero stati consegnati al Colle. Ripeto: dieci minuti». E sulle nomine poi, le decisioni a dette di Salvini non furono soltanto unilaterali, ma anche errate: «La disastrosa Luciana Lamorgese confermata al Viminale, per non parlare di Roberto Speranza alla Salute, fino all’irriducibile Luigi Di Maio agli Esteri».

Oltre a questi primi motivi di frizione, un passaggio è risultato decisivo per far decidere al carroccio di negare il proprio appoggio e far cadere il governo: ««Nella conferenza stampa di fine anno [2022, ndr], il presidente del Consiglio aveva fatto intendere di ritenere sostanzialmente conclusa la sua missione di governo. Un’uscita che in molti avevano letto come l’ammissione di voler puntare al Colle». Tra i due ci sarebbe poi stato «un ultimo incontro» nel quale «il presidente Draghi sondava la disponibilità della Lega e del centrodestra in generale per un’eventuale sua ascesa al Colle». Una mossa che non spiazza Salvini, che, scrive nel libro, chiede immediatamente cosa ne sarebbe stato del governo. «La risposta non arrivò. O meglio, ci fu un “Ne parleremo dopo”».

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Attualità

Suicidio assistito, il governo ricorre al Tar contro le delibere dell’Emilia-Romagna

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Palazzo Chigi si oppone alle delibere per regolamentare il suicidio assistito emanate da Stefano Bonaccini.

Iter e tempistiche stabilite per permettere alle aziende sanitarie di garantire il diritto dei malati a ricorrere al suicidio assistito, come sancito da una sentenza della Corte costituzionale. Questi i contenuti di un provvedimento sul suicidio assistito emanato della giunta regionale dell’Emilia-Romagna, guidata da Stefano Bonaccini, contro il quale oggi hanno presentato ricorso al Tar la presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero della Salute.

Si tratta del secondo ricorso presentato contro le delibere sul suicidio assistito annunciate da Regione Emilia-Romagna, dopo quello presentato a marzo dalla consigliera di Forza Italia Valentina Castaldini. E’ lei stessa a rendere noto oggi che il governo le dà man forte in questa battaglia.

«Carenza di potere dell’ente» sull’oggetto del dibattito «e la contraddittorietà e l’illogicità delle motivazioni introdotte nelle linee guida inviate alle aziende sanitarie», tra le cause indicate alla base del ricorso.

I provvedimenti fissano un limite di 42 giorni a disposizione di enti ed istituzioni per rispondere alla domanda presentata da pazienti che richiedono l’esecuzione del fine vita. Sui social Bonaccini si è espresso duramente contro la decisione del governo: «Il Governo, anziché preoccuparsi di dare una legge al Paese e alle persone che vivono in condizioni drammatiche, sceglie addirittura di boicottare l’Emilia-Romagna che attua la sentenza dalla Corte Costituzionale».

«Per la destra- continua il post di Bonaccini – non basta negare un diritto alle persone sancito dalla Corte: per loro è preferibile che un paziente in condizione di fine vita debba rivolgersi ad un tribunale per vedersi riconosciuto quanto la Consulta ha finalmente sancito. Si è passato il limite. Non solo si negano i diritti delle persone riconosciuti dalla Corte costituzionale, ma si fa battaglia politica sulla pelle di pazienti che si trovano in condizioni drammatiche».

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Moglie, suocera e cognati di Aboubakar Soumahoro rinviati a giudizio

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Il Gup di Latina ha accolto le richieste dei pm. Secondo le accuse, gli indagati hanno utilizzato il denaro della Prefettura destinato ai minori ospiti della cooperativa Karibu, per spese personali.

Liliane Murekatete, Marie Therese Mukamitsindo, Michel Rukundo e Aline Mutes, rispettivamente moglie, suocera e cognati del senatore Aboubakar Soumahoro, sono stati rinviati a giudizio dal  giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Latina Giulia Paolini, che ha accolto le richieste del pm Giuseppe Miliano. Un altro cognato di Soumahoro, Richard Mutangana, è tornato in Ruanda ed è al momento irreperibile, ma la sua posizione è stata stralciata.

In base alle accuse nei loro confronti, gli indagati avrebbero utilizzato i soldi provenienti dalla prefettura di Latina e destinati ai giovani ospiti della cooperativa Karibu per comprare oggetti di lusso ed effettuare investimenti all’estero, mentre i migranti erano stati lasciati al freddo e con poco cibo.  I reati contestati sono quelli della bancarotta, frode in pubbliche forniture e autoriciclaggio.

L’inchiesta nacque dalle segnalazioni di alcuni dipendenti della cooperativa, rimasti senza stipendio. Questo fattore ha portato anche ad una vertenza sindacale. La vicenda si è abbattuta come un macigno sulla carriera politica del senatore Soumahoro, passato repentinamente al gruppo misto dopo essere stato scaricato dal partito con cui era stato eletto, Alleanza Verdi-Sinistra Italiana.

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