Politica
Meloni attacca Repubblica, Fatto Quotidiano e Domani: «portatori di interesse»
Da Pechino, dove si trova in visita istituzionale, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rispondendo alle domande dei giornalisti in un punto stampa, ha rilasciato un duro affondo a Repubblica, Fatto Quotidiano e Domani: «stakeholder, portatori di interessi». Le repliche: «idea illiberale del giornalismo e del ruolo che il giornalismo ha in una democrazia compiuta», «gaffe gigantesca, l’unico interesse che portiamo è quello dei nostri lettori ad essere informati», «Parole gravi, false e soprattutto pericolose».
Il dibattito sulla libertà di stampa, già rinvigoritisi nell’ultimo periodo, viene rinfocolato all’improvviso da Pechino. Giorgia Meloni, in visita istituzionale in Cina, durante un punto stampa ha rilasciato un duro affondo a Fatto Quotidiano Repubblica e Domani, definiti «stakeholder, portatori di interessi. Non sono mancate le altrettanto repliche dei diretti interessati. Causa scatenante del feroce botta e risposta, il report sullo stato di diritto nel nostro Paese della Commissione europea, con particolar riferimento al tema della libertà di stampa.
«Non vedo ripercussioni negative per l’Italia, non ritengo che i rapporti con la Commissione europea stiano peggiorando. Io e la Commissione europea abbiamo discusso e del resto la lettera che io ho inviato non è una risposta alla Commissione europea o a un momento di frizione con la Commissione europea, è una riflessione comune sulla strumentalizzazione che è stata fatta di un documento tecnico nel quale mi corre l’obbligo di ricordare che gli accenti critici non sono della Commissione Europea – ha affermato Giorgia Meloni, che ha aggiunto – la Commissione Europea riporta accenti critici di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: il Domani, il Fatto Quotidiano, Repubblica… Però la Commissione europea non è il mio diretto interlocutore, ma chi strumentalizza quel rapporto che tra l’altro non dice niente di particolarmente nuovo rispetto agli anni precedenti, anche questo varrebbe la pena di ricordare».
La presidente prosegue: «dicono che ci sono delle intimidazioni alla stampa perché ci sono degli esponenti politici che querelano per diffamazione alcuni giornalisti ma non mi pare che in Italia vi sia una regola che dice che se tu hai una tessera da giornalista, che ho anche io in tasca, puoi liberamente diffamare qualcuno e dire che gli esponenti politici se avviano una causa per diffamazione stanno facendo azioni di intimidazione, vuol dire non avere neanche rispetto dell’indipendenza dei giudici. Viene ad esempio preso in considerazione anche alcune querele che ho fatto io, le ho fatte quando ero all’opposizione, non quando ero al governo. Capisco il tentativo di strumentalizzare, cioè conosco il tentativo di cercare il soccorso esterno da parte di una sinistra in Italia che evidentemente è molto dispiaciuta di non poter utilizzare per esempio il servizio pubblico come fosse una sezione di partito, però su questo non posso aiutare proprio perché credo nella libertà di informazione e di stampa».
Il cdr di Repubblica ha rilasciato un comunicato alle dichiarazioni di Meloni: «in modo tanto puerile quanto confuso, la Presidente del Consiglio continua ad evitare di rispondere nel merito delle osservazioni sollevate dal rapporto sullo Stato di diritto dalla Commissione europea, ritenendo più utile abbandonarsi a considerazioni sul ruolo di “Repubblica” e, più in generale di quella parte dell’informazione italiana non politicamente arruolata. Considerazioni che tradiscono la sua idea illiberale del giornalismo e del ruolo che il giornalismo ha in una democrazia compiuta. Confermando in questa maniera le obiezioni che il rapporto di Bruxelles le ha sollevato. Per Giorgia Meloni un giornale non è infatti un fondamentale strumento di controllo del potere necessario, attraverso la pubblicazione di notizie e opinioni, a mettere un cittadino nelle condizioni di compiere liberamente e consapevolmente le sue scelte, ma uno “stakeholder”, un portatore di interessi. Ebbene, consigliamo a Giorgia Meloni di dedicarsi a fare la Presidente del Consiglio, se ne è capace, cercando di non avventurarsi su terreni che evidentemente le risultano assai ostici. Quanto a Repubblica, si rassegni all’esistenza di un giornalismo di qualità, indipendente, e ricordi le parole del secolo scorso con cui un monumento del giornalismo americano, Walter Cronkite, ricordò a Richard Nixon la natura passeggera della vertigine che porta con sé il potere politico: “I presidenti passano, i giornalisti restano”».
Ha commentato le parole di Meloni anche il direttore de il Fatto, Marco Travaglio: «sono felice che le istituzioni europee si preoccupino della libertà di informazione in Italia. Penso che la libertà di stampa fosse più minacciata ai tempi di Renzi e di Draghi, oltreché di Berlusconi. Infatti allora non ne parlava nessuno. Quanto a Giorgia Meloni – aggiunge – non posso credere che sia incorsa in una gaffe così gigantesca, perché i giornali che ha elencato non sono citati nel rapporto della Commissione europea, ma nel Media Freedom Rapid Response, che è uno dei tanti consorzi europei. Siccome però dice che Il Fatto Quotidiano è portatore di interessi, lo confermo: l’unico interesse che portiamo è quello dei nostri lettori ad essere informati».
Per Domani, la risposta a Giorgia Meloni arriva da Emiliano Fittipaldi: «a decisione della premier Giorgia Meloni di ritirare la querela contro Domani ci aveva fatto sperare, appena qualche giorno fa, in un cambio di rotta […]. Speravamo che […] fosse […] un rinsavimento politico verso il necessario equilibrio che il potere deve avere […] nei confronti del giornalismo indipendente. Eravamo stati troppo ottimisti. Martedì la presidente in missione in Cina, davanti alle critiche dell’Unione europea e di associazioni indipendenti finanziate dall’Ue sulla disastrata situazione della stampa in Italia, Meloni ha attaccato di nuovo Domani, insieme al Fatto Quotidiano e Repubblica. Il nostro giornale sarebbe infatti reo di aver di fatto «indirizzato» le critiche al governo delle destre rivolto dai due report. E lo avremmo fatto in quanto «portatori di interessi» specifici. Parole gravi, false e soprattutto pericolose. A cui sono seguiti a ruota articoli da parte dei giornali di destra e sedicenti fogli liberali, che hanno fatto una sorta di lista di proscrizione dei colleghi […] “colpevoli” di aver interloquito con gli osservatori di Media Freedom […]. […] Meloni, invece di entrare nel merito della gestione della Rai e relative censure e propagande, invece di spiegare come mai inchieste e articoli vengono sistematicamente querelati da ministri e sottosegretari […], ha scelto la sua arma preferita: quella del vittimismo. Provando, per l’ennesima volta, a delegittimare chi continua a fare il proprio dovere e che non accetta l’appeasement che Palazzo Chigi […] si aspetta dal quarto potere. Definire Domani e le altre due testate «portatori d’interesse» serve esattamente a questo: screditare chi prova a fare informazione libera, facendo credere alla pubblica opinione che le notizie su uno dei peggiori governi della nostra repubblica non siano frutto di attività autonoma, ma che la critica sia sottomessa a chissà quali interessi opachi. Certamente di parte. La cappa calata sui media nazionali è invece realtà evidente a chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale. Ci si aspetterebbe da un capo di governo maggiore responsabilità di fronte alle critiche di Bruxelles, soprattutto dopo quanto accaduto con l’aggressione al cronista della Stampa Andrea Joly da parte di CasaPound e le demenziali parole del presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha attaccato il comportamento del reporter massacrato dai fascisti. Ahinoi Meloni ha scelto invece la strada del complottismo, fregandosene altamente anche del monito di Mattarella. Ai nostri lettori promettiamo solo una cosa: di continuare a fare il nostro lavoro. Perché è vero che siamo portatori di interesse. Ma di uno solo: il loro».
Politica
Valditara non si scusa: «mie parole strumentalizzate»
Il ministro non ritratta la figura barbina rimediata in occasione della visita di Giulio Cecchettin alle Camere: «Non ho mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati».
«Sono state strumentalizzate alcune mie affermazioni». Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara non ritira le sue parole sul legame tra violenza sulle donne e immigrazione illegale, ma precisa che sono state «strumentalizzate». «Non ho mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati» ha affermato al Salone dello Studente di Campus a Roma.
Un paio di giorni fa, avevano suscitato polemiche ed indignazione le sue parole a proposito dell’ «incremento dei fenomeni di violenza sessuale», che sarebbe riconducibile anche «a forme di marginalità e devianza, in qualche modo discendenti da immigrazione illegale». Non potevano non mancare proteste vibranti, ma Valditara sostiene che le sue parole «sono state strumentalizzate». Le polemiche hanno portato i membri della famiglia Cecchettin, che stavano presentando proprio in quel momento la Fonazione dedicata a Giulia, a prendere, seppur con garbo, le distanze.
Ed oggi il ministro prova a riavvicinarsi: «Raccolgo molto volentieri l’invito ad un confronto con Gino Cecchettin, che ha sempre usato parole molto equilibrate. Credo che il comune scopo che condividiamo, cioè combattere contro ogni forma di violenza sulle donne, ci debba vedere tutti dalla stessa parte».
Ed in merito alle polemiche: «E che cosa ho detto? Ho detto che a queste violenze sessuali contribuisce anche, è importante l’anche, la marginalità e la devianza conseguenti a una immigrazione irregolare. Allora non ho detto che è l’immigrato che è causa di questo, ho detto la marginalità e la devianza».
Politica
Il governo costretto alla “ritirata” in Albania: ridotto il contingente nei Cpr
Il Viminale ha disposto la riduzione del contingente di forze dell’ordine nei centri di permanenza e rimpatrio allestiti in Albania. Si teme che la Corte dei Conti possa contestare un danno erariale e intanto si attende la decisione della corte Europea, che potrebbe definitivamente sotterrare l’operazione.
E’ stata definita «rimodulazione», ma ha tutti i contorni di uno smobilitazione generale. Nonostante le dichiarazioni agguerrite («i giudici non ci fermeranno») ed ingerenze non richieste da parte di futuri consiglieri esteri, il governo difficilmente potrà proseguire la campagna d’Albania: il Viminale ha disposto la riduzione delle forze dell’ordine nei Centri di permanenza e rimpatrio di Shengjin e Gjader.
Una cinquantina gli agenti che dovrebbero fare ritorno in Italia. Dalle inziali 259 unità pensate, nei due centri rimarrà solo il personale strettamente necessario per coprire i turni di vigilanza da sei ore, 170 agenti, anche quando i Cpr sono vuoti, come in questo momento.
E dopo che due navi con a bordo 16 migranti prima ed 8 dopo sono state fatte tornare indietro, ci si chiede se altre ne partiranno mai verso l’atra sponda dell’Adriatico e se la Corte dei Conti avanzerà un’accusa di danno erariale. Mentre continua il braccio di ferro con la magistratura italiana, in seguito alle pronunciazioni dei Tribunali di Roma e Bologna, al Ministero e a Palazzo Chigi rimangono in attesa della sentenza della Corte di Giustizia Europea sulla designazione di “Paesi Sicuri”. Un sentenza che non è assolutamente scontato possa dare ragione al governo e che potrebbe soppiantare definitivamente il progetto di trasferire in Albania i migranti soccorsi in mare.
Politica
Meloni al sindaco di Bologna Lepore: «non ho visto camicie nere, ma solo quelle blu degli agenti aggrediti»
Duro scambio tra la premier e il primo cittadino felsineo dopo gli scontri durante il corteo di CasaPound, con il sindaco che denuncia una gestione discutibile dell’ordine pubblico e la premier che lamenta doppiogiochismo. Lepore replica a Giorgia Meloni: «non confonda la collaborazione con l’obbedienza. Perché è stato permesso che 300 persone con le svastiche al collo e la camicia nera sventolassero le loro bandiere marciando al passo dell’oca a pochi passi dalla stazione?». Salvini: «le uniche camicie nere rimaste sono sotto alle loro camicie rosse».
Scintille a distanza tra il sindaco di Bologna Massimo Lepore e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo gli scontri avvenuti sabato scorso nel capoluogo emiliano tra forze dell’ordine e la rete di sinistra che protestava contro il corteo di CasaPound. Le frizioni sono state innescate dalle parole del primo cittadino: «Il governo ci ha inviato 300 camicie nere».
«Io di camicie nere non ne ho viste, semmai ho visto quelle blu degli agenti di polizia che sono stati aggrediti dagli antagonisti amici della sinistra». Così Meloni alla manifestazione in favore della candidata del centrodestra alle regionali, Elena Ugolini. La premier, per la delusione dei suoi sostenitori, è intervenuta soltanto in videocollegamento, trattenuta dal protrarsi del vertice con i sindacati CGIL e UIL, che oltretutto non è servito nemmeno ad evitare lo sciopero generale. «Lepore ha una doppia faccia, se io sono una picchiatrice fascista non mi chieda di collaborare» ha detto ancora la premier ai suoi.
La replica del sindaco non si è fatta attendere: «Io di faccia ne ho una sola, guardo ai cittadini bolognesi e chiedo rispetto per la mia città oltraggiata sabato da un corteo di 300 camicie nere. La premier Giorgia Meloni non confonda la collaborazione con l’obbedienza, non possono esserci scambi su questo » ha detto in un’intervista concessa a Repubblica. Lepore precisa: «io non ho dato a Meloni della picchiatrice fascista». E poi incalza: «Chiedo spiegazioni sulla gestione dell’ordine pubblico. Perché è stato permesso che 300 persone con le svastiche al collo e, ribadisco, la camicia nera, sventolassero le loro bandiere marciando al passo dell’oca a pochi passi dalla stazione? Il fatto che sia stato permesso è un oltraggio alla città».
Secondo il sindaco la manifestazione di CasaPound era prevista inizialmente in piazza della Pace, in una zona più periferica vicina allo stadio, ma poi il Ministero dell’Interno avrebbe preso un’altra decisione, diversa da quella pattuita nel comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza. «Il ministero spieghi chi è che ha cambiato la decisione e perché. È doveroso verso la città. E anche perché esattamente un’ora dopo la manifestazione tutto il governo ha iniziato a fare dichiarazioni contro la nostra città. ‘Zecche rosse’, ‘addosso ai centri sociali’, ‘sinistra connivente con i movimenti».
Sulla vicenda è intervenuto a suo modo anche il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che oggi ha fatto visita ai «ragazzi del Reparto mobile della Polizia che sono stati vigliaccamente assaltati dai300 criminali rossi […] figli di papà che erano là a cercare camicie nere non ci sono». La video testimonianza pubblicata sui social conclude con una riflessione tra politica ed armocromia: «le uniche camicie nere rimaste sono sotto alle loro camicie rosse, perché gli unici fascisti rimasti sono quelli dei centri sociali».
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