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Politica

Nel Pd sono divisi pure gli ex, D’Alema: «riformare il campo largo», Veltroni: «ritrovare propria identità»

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Da una parte il «vecchio comunista», “rottamato” e più vicino alle posizioni pentastellate che dem, dall’altro il teorico del «ma anche», tra i fondatori del Pd. Come spesso accaduto in passato, i due ex nomi altisonanti del centrosinistra italiano, hanno visioni diametralmente opposte.

Il Pd è un partito dilaniato al suo interno. Le divisioni di corrente, già più che sensibili prima delle elezioni, sono definitivamente deflagrate dopo il tonfo elettorale. Qualcuno vorrebbe riaprire il dialogo con il Movimento 5 Stelle, ma non soltanto, qualcun altro vorrebbe rifondare il partito e trovare una propria collocazione. C’è perfino chi si spinge ad ipotizzare lo scioglimento del Partito Democratico, in favore della fondazione di un nuovo soggetto politico. Nel mezzo, rimane un partito con un segretario non dimissionario, ma a scadenza ravvicinata e un congresso da attuarsi a data da destinarsi. E nel dibattito su che strada prendere, oggi sono intervenuti anche due volti noti, due ex pezzi grossi del centrosinistra: Massimo D’Alema, intervistato da Fabrizio Principe per il Fatto Quotidiano, e Walter Veltroni, che invece ha dialogato con Francesca Schianchi sulle colonne de La Stampa.

D’Alema si schiera apertamente in favore della riapertura del dialogo coi cinque stelle, «un confronto era obbligatorio, bisogna riformare il campo largo». Veltroni invece insiste sulla necessità del PD di tornare alle proprie origini ed alla propria identità.

Il primo si è soffermato sulle scelte politiche e sulle derive governiste tecnocratiche del partito, che evocano sempre il populismo («il governo Monti non ha insegnato nulla»), ma anche sugli errori commessi in campagna elettorale. «Il Pd pensava che sarebbe stato premiato il suo sostegno al governo Draghi, mentre le elezioni hanno premiato i leader che più lo hanno contrastato» ha affermato D’Alema, che ha aggiunto: «durante la campagna nessuno ha detto la parola pace». Secondo l’ex segretario dell’Ulivo, il Pd non è più capace di intercettare il voto dell’elettorato popolare, a differenza di Conte («mi capita di sentirlo, e un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà personale»), da cui deriverebbe la necessità di «ricomporre il campo largo».

Non la pensa così Veltroni, secondo il quale il Pd non dovrebbe cercare le alleanze più convenienti, ma attuare un processo di ritorno alle origini per recuperare la propria identità ed il proprio elettorato. «In 14 anni il Pd ha perso circa sette milioni di voti: la prima cosa da fare non è allearsi con Conte o Calenda, ma riallearsi con quei sette milioni di elettori». Il primo segretario dem non vuole sentire parlare di scioglimento, ma di «riprogettazione dell’identità della sinistra», che a sua avviso comporterebbe una «sfida inedita». «Assistiamo al paradosso per cui chi ha dimezzato i voti esulta, e un partito che ha quasi il 20 per cento discute se sciogliersi. Il Pd più che una sconfitta elettorale ha subito una sconfitta politica, rischia molto se non coltiva la sua identità e se non cambia profondamente».

Attualità

Crosetto querela Il Giornale: «titolo falso e diffamatorio»

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crosetto querela il giornale diretto da sallusti

Al ministro della Difesa non è piaciuto il titolo che il quotidiano diretto da Sallusti ha dedicato all’incontro con il Procuratore Capo di Roma. Il direttore replica: «quando uno è nervoso perde la lucidità. L’articolo che abbiamo pubblicato è perfetto; il titolo è una sintesi come tutti i titoli lo sono».

Aveva promesso che non avrebbe avuto remore a denunciare giornali e giornalisti ed ha mantenuto la promessa il ministro della Difesa Guido Crosetto, anche se la querela arriva alla testata che non ci aspettava e per motivi diversi dalle accuse di conflitto d’interesse: a finire nel mirino di Crosetto è stato Il Giornale per un articolo, o per meglio dire un titolo, che il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti ha dedicato all’incontro tra il ministro e il Procuratore Capo di Roma Francesco Lo Voi.

L’argomento è ancora quello delle polemiche innescate dal titolare del dicastero della Difesa, che una decina di giorni fa ha parlato di «opposizione giudiziaria» come unico «pericolo» per il Governo Meloni. Parole che hanno innescato una lunga sequela di commenti, critiche e puntualizzazioni. In tale contesto, ieri Crosetto e Lo Voi hanno avuto un incontro chiarificatore. Diversa l’analisi de Il Giornale, che ha titolato «Inchiesta su Crosetto», sebbene nell’articolo specifica: «al momento, il titolare della Difesa non sarebbe indagato».

Un titolo che però il diretto interessato ha giudicato fuorviante: «Oggi quasi tutti i quotidiani danno dell’incontro una rappresentazione corretta. Il Giornale invece inventa di sana pianta un titolo gravemente diffamatorio, totalmente falso costruito evidentemente con il solo intento di infangare» ha affermato Crosetto motivando la sua decisione di far partire la querela e dimostrandosi ancora una volta intransigente verso i giornali e le interpretazioni dei giornalisti.

Non si è fatta attendere la replica del direttore responsabile Sallusti: «Mi sembra che il ministro sia molto nervoso e quando uno è nervoso perde la lucidità. L’articolo che abbiamo pubblicato è perfetto; il titolo è una sintesi come tutti i titoli lo sono, l’inchiesta è sulle parole di Crosetto, non su Crosetto. L’inchiesta è sul tema sollevato da Crosetto e credo che questo lo capisca anche uno stupido». Il direttore continua: «Aspetto la sua querela, mi chiedo come mai non abbia querelato anche il ‘Corriere della Sera’ che lui sostiene aver fatto un titolo, una sintesi eccessiva del suo pensiero. Evidentemente ha qualche timore a querelare il ‘Corriere della Sera’ e pensa di avere gioco facile a querelare giornali che gli sono sempre stati vicini nella sua azione».

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Mondo

L’Italia è uscita ufficialmente dalla Via della Seta, l’accordo per gli scambi commerciali con Pechino

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l'italia esce dalla via della seta

L’Italia non rinnoverà il memorandum sulla Belt & Road Initiative alla sua scadenza, nel 2024. Era stato il primo Paese G7 ad aderire.

Sebbene fosse nell’aria già da un po’, l’uscita ufficiale è avvenuta in sordina: l’Italia è uscita dalla Belt & Road Initiative, la nuova Via della Seta, l’accordo siglato nel 2019 dall’allora presidente del Consiglio Conte e il premier cinese Xi Jinping per agevolare gli scambi commerciali tra Europa ed Asia. Alla scadenza naturale, il prossimo 22 marzo 2024, il memorandum non verrà rinnovato.

Da Palazzo Chigi è giunto un semplice «no comment», mentre la Farnesina nel messaggio con cui informava della decisione Pechino, ha specificata che rimane l’ «amicizia strategica» tra i due Paesi.

L’Italia era stato il primo Paese del G7 ad aderire alla Via della Seta. Ed è anche la prima a fare un passo indietro. La mossa è stata preceduta da una missione in Cina del segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia in estate e a seguire dalla visita del ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Né Italia, né Cina hanno diramato un comunicato: Pechino non vuole dare troppa enfasi alla notizia per evitare che altri Paesi seguano l’esempio italiano, mentre Roma preferisce non indispettire il potente amico strategico orientale.

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Politica

La maggioranza affossa il salario minimo, alla Camera scoppia il caos

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protesta alla camera salario minimo affossato

Quando il maxiemendamento che affossa la proposta di istituire un salario minimo di 9 euro l’ora è stato approvato, dai banchi dell’opposizioni si sono levati cartelli e grida di protesta. Un deputato si è perfino avvicinato ai banchi della maggioranza con fare minaccioso, ma è stato fermato dai commessi.

153 favorevoli, 118 contrari, 3 astenuti e il salario minimo va in soffitta: il maxiemendamento della maggioranza che affossa la proposta è stato approvato. E le opposizioni, tranne Italia Viva, hanno fatto scattare una protesta plateale.

Al momento del voto in Aula, le tensioni dei mesi scorsi sono definitivamente esplose. Dai banchi delle opposizioni sono spuntati cartelli con le scritte «salario minimo negato» e «non in mio nome», mentre alcuni deputati si sono avvicinati agli scranni della maggioranza gridando «vergogna». Seduta sospesa e commessi costretti a strappare dalle mani dei deputati i cartelli. Un onorevole particolarmente focoso è stato perfino trattenuto prima che potesse raggiungere i banchi dei deputati dei partiti di governo.

«Noi andremo avanti insieme alle altre opposizioni come portarla avanti già raccolto 500mila firme. Anche oggi abbiamo agito in maniera compatta e continueremo a farlo» ha affermato Elly Schlein, che ha aggiunto: «’Meloni volta spalle alle condizioni materiali di lavoro. Hanno deciso da che parte stare stanno con chi sfrutta lavoro e spalancano le porte ai contratti pirata». Dello stesso avviso Giuseppe Conte che, al pari della segretaria dem, ha ritirato la firma dal provvedimento: «Con la stessa arroganza con cui fate fermare un treno per far scendere un ministro, voi avete fermato la speranza di 3,6 milioni di lavoratrici e lavoratori che sono sottopagati. Questo gesto proditorio non lo compirete in mio nome e nel nome del M5S: state facendo carta straccia del salario minimo legale» ha detto ieri alla Camera, strappando platealmente il testo del provvedimento.

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