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Libia, immagini shock di un 15enne torturato. Casarini a Salvini e Meloni: “Fatelo vedere ai vostri figli”

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TRIPOLI – In un angolo, a terra, seminudo, minacciato con un mitra e picchiato con un bastone. Mazin ha 15 anni e viveva a Tripoli, dove provano a nascondersi molti migranti. Dopo l’ennesima retata delle Special Force libiche per catturare e internare nei campi di detenzione i rifugiati, ha trascorso tre mesi a manifestare davanti la sede dell’Unhcr a Tripoli per poi essere arrestato e deportato nel campo di Ain Zara. In un video, di cui Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, è entrato in possesso grazie alla rete ‘Refugees in Libya’, lo si vede mentre a terra con le braccia tenta di schivare dei colpi di bastone. A pochi centimetri dal viso un mitra che qualcuno urlando gli punta contro.

“Quella di questo ragazzino di appena 15 anni che arriva dal Darfur in Sudan, uno dei Paesi per i quali dovrebbe essere automatico il riconoscimento dell’asilo, e che subisce torture, è la storia di tutti i giorni in Libia. Non è un’eccezione ma la regola”, dice all’Adnkronos Casarini. “Sono tante le testimonianze di cosa accade nei campi di concentramento, in quei luoghi di morte che anche l’Italia contribuisce a finanziare”.

Come riporta l’Adnkronos, nei giorni in cui il fenomeno migratorio torna alla ribalta della cronaca, Casarini punta il dito ancora una volta sulla “propaganda” di Salvini e Meloni, tornati a invocare decreti Sicurezza e blocchi navali. “Le immagini di questo video spiegano a cosa serve il cosiddetto ‘blocco navale’ di cui tanto parla la Meloni o a cosa si riferisce Salvini quando dice ‘meno partenze uguale meno morti in mare’. Certo, meno morti in mare perché muoiono in Libia, lontano dai nostri occhi”.

Eccola per il capomissione di Mediterranea la logica che muove “i nostri grandi futuri statisti”. “Tenere in questa condizione migliaia e migliaia di esseri umani che sono sottoposti tutti i giorni a torture, sevizie e sequestri”, denuncia. A sostegno della sua tesi snocciola i numeri. Pesanti. “L’anno scorso 32mila persone sono state catturate in mare e rinchiuse nei campi di concentramento nelle mani dei carcerieri libici – dice -. Il 20 per cento bambini e minori, deportati grazie alla collaborazione e al finanziamento cospicuo da parte del Governo italiano della cosiddetta Guardia costiera libica”. Evitare le partenze dalle coste del nord Africa significa solo “costringere questi nostri fratelli e sorelle a morire lì, tra le torture e gli stenti, ma lontano dagli occhi della civilissima Europa. Questo è il grande intento civile della signora Meloni”.

Come riporta l’Adnkronos, il ragazzo ripreso nel video di cui è in possesso Casarini è un attivista che lo scorso anno ha cercato, insieme ad altre migliaia di manifestanti nella ‘mobilitazione dei 100 giorni’ a Tripoli, di “chiedere all’Europa e al mondo intero un luogo sicuro in cui poter vivere, un modo legale per uscire dall’inferno della Libia”. Una richiesta caduta nel vuoto. “Anche l’Unhcr in Libia sa bene cosa accade laggiù, conosce le storie di questi bambini torturati, eppure non muove un dito perché il problema è gli interessi degli Stati, non quelli delle persone”, attacca Casarini. Che il video del giovane Mazin lo recapita idealmente ai leader di FdI e Lega. “Meloni e Salvini lo guardino bene, lo facciano vedere ai loro figli e pensino che loro sono tra i responsabili delle torture inflitte a un ragazzino di appena 15 anni. Lo sono loro e chi ha ideato il ‘patto Italia-Libia’, un patto con torturatori e carcerieri incaricati di annientare fisicamente e moralmente migliaia di essere umani che chiedono solo di poter vivere”.

“Un giorno – conclude Casarini – ci sarà una Norimberga per questi signori, per i Minniti, per i Salvini e le Meloni di turno. La storia giudicherà questo genocidio, questa tragedia immane del Mediterraneo a cui abbiamo costretto migliaia di esseri umani, famiglie intere, donne, uomini e bambini solo per convenienza politica. Nel frattempo ognuno risponda alla propria coscienza, faccia i conti con se stesso la sera prima di andare nei talk show a parlare di blocchi navali e decreti Sicurezza e se riesce, dopo aver visto gli occhi di Mazin in quel video, guardi i propri figli come se nulla fosse successo”.

“Noi di Mediterranea disobbediremo sempre a leggi ingiuste e useremo questi quattro giorni di incontri e dibattiti a Napoli, al Maschio Angioino, per riorganizzare e rafforzare la rete che si oppone a questo orrore, a questa tragedia pianificata. Lo faremo insieme a tanti altri che hanno deciso di non girarsi dall’altra parte”.

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Marina Berlusconi nominata Cavaliere del lavoro: «lo dedico a mio padre»

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marina berlusconi cavaliere del lavoro

Oggi a Palazzo del Quirinale si è tenuta la cerimonia di consegne delle onorificenze dell’Ordine al Merito del Lavoro ai 25 Cavalieri del Lavoro nominati dal Capo dello Stato Sergio Mattarella il 2 giugno, tra cui Marina Berlusconi. 

La famiglia Berlusconi può vantare un altro cavaliere del lavoro: Marina, figlia primogenita di Silvio, ha ricevuto la prestigiosa onorificenza oggi, a Palazzo del Quirinale. Tecnicamente però, si tratta della prima della famiglia, dal momento che il padre si autosospese dalla Federazione dei cavalieri del lavoro nel 2014, in seguito alla condanna per frode fiscale. Lei però dedica il premio proprio al genitore: «Dedico questo riconoscimento a mio padre, che nel 1977 ricevette lo stesso titolo. Sono passati più di quarant’anni, ma ricordo come fosse ieri quella giornata a Roma in cui mia madre, io e mio fratello Pier Silvio lo accompagnammo alla cerimonia per questa onorificenza: ero una bambina, e quel momento resterà per sempre nel mio cuore».

«È un onore grandissimo, per il quale desidero davvero esprimere tutta la mia gratitudine al Presidente Mattarella e al Consiglio dell’Ordine al Merito del Lavoro» ha affermato la presidente del  Gruppo Mondadori, Mediaset e Fininvest e neo Cavaliere Marina Berlusconi.

 

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Ranucci anticipa nuove inchieste sul Ministero della Cultura: il governo suda freddo

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perquisizione della Dia nella redazione di Report e a casa dell'inviato Mondani

Sigfrido Ranucci domenica torna in onda con una nuova stagione di Report, ma le sue inchieste già fanno tremare il governo ed in particolare il Ministero della Cultura. Le anticipazioni del conduttore fanno pensare ad almeno due inchieste esplosive.

Prima ospite di Lilli Gruber a “Otto e Mezzo” sul La7, poi da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari ad Un Giorno da Pecora su Rai Radio1, Sigfirdo Ranucci ha rilasciato alcune anticipazioni sulle inchieste della nuova stagione di Report, in onda da domenica sera, che già mettono apprensione a Palazzo Chigi e che dovrebbero avere come focus ancora una volta il Ministero della Cultura. Il conduttore non ha rivelato quali sono i suoi scoop, che dovrebbero essere almeno due, ma ha fornito una serie di indizi.

Hanno a che vedere con il Ministero, ma non con l’ex ministro che proprio a causa di una serie di inchieste giornalistiche ha dovuto lasciare il dicastero: «Sangiuliano non c’entra, anzi a Gennaro mando un saluto. È uno dei pochi che sa cosa è la dignità e si è dimesso anche ingiustamente. È una persona che in Rai può dare ancora molto». Ma allora cosa riguarda? «È un nuovo caso Boccia che potrebbe essere al maschile, non riguarda Boccia, ma come modalità di operazione è un caso simile. Ci sono documenti e chat che farebbero ipotizzare responsabilità legate ad alte cariche di Fratelli d’Italia». Quando i conduttori gli chiedono se questa inchiesta possa portare alle dimissioni dell’appena nominato ministro Giuli, il giornalista risponde sornione: «Gli consiglio di guardare Inter-Juve».

Insomma, Ranucci non si sbilancia, ma c’è già abbastanza materiale per mandare in fibrillazione il governo. Il responsabile comunicazione del governo, Giovanbattista Fazzolari, è impegnato a cercare indizi nelle chat di gruppo. Si tratta forse di informazioni provenienti da Francesco Gilioli, ex capo di gabinetto di Sangiuliano, sostituito da Francesco Spano? O sono legate prorpio al suo successore, nominato da Giuli nonostante le controversie con Pro-Vita e i media di destra? Al momento non è chiaro, ma a quanto pare i vertici Rai hanno già ricevuto richieste di chiarimenti e la pretesa di visionare il servizio prima della messa in onda. Resta da vedere se emergeranno ulteriori sviluppi prima della trasmissione di domenica.

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L’ombra dei licenziamenti su Stellantis, Tavares: «non scarto nulla»

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licenziamenti stellantis

Durante un’intervista al Salone dell’Auto di Parigi, l’amministratore delegato del colosso automobilistico italo-francese non ha escluso la possibilità di licenziamenti negli stabilimenti Stellantis.

«Non scarto nulla». Un non detto ai microfoni di Radio Rtl  che rischia di valere più di mille parole. L’ammissione, o meglio la mancata smentita, da parte di Carlos Tavares, il portoghese amministratore delegato del gruppo italo-francese Stellantis, getta in angoscia centinaia di lavoratori, che temono sempre più per il proprio posto di lavoro. «La salute finanziaria di Stellanti non passa unicamente dalla soppressione di posti di lavoro, ma anche da tante altre cose: immaginazione, intelligenza, innovazione. Che è quello che stiamo facendo» ha aggiunto Tavares, che ha affermato che i licenziamenti in Stellantis non sono «al centro della nostra riflessione strategica».

Parole che arrivano dopo l’audizione in Parlamento di fronte alle commissioni Attività produttive della Camera e Industria del Senato della settimana scorsa. In quell’occasione venne chiesto all’ad di illustrare i piani per il futuro del gruppo in Italia e di motivare per quale motivo i livelli di produzione fossero minori rispetto a quelli di altri Paesi nei quali il gruppo è attivo. Stellantis controlla 14 marchi automobilistici ed ha siti produttivi in 29 Paesi.

Le ipotesi di chiusure e licenziamenti hanno cominciato a ventilare con maggiore intensità nei giorni scorsi, in seguito ad un’altra intervista rilasciata dal portoghese, questa volta a Les Echos: «Se i cinesi prendono il 10% delle quote di mercato in Europa al termine della loro offensiva, questo vuol dire che peseranno per 1,5 milioni di auto. Questo rappresenta sette fabbriche di assemblaggio. I costruttori europei dovranno allora sia chiudere, sia trasferirle ai cinesi». E aveva aggiunto: «Chiudere le frontiere ai prodotti cinesi è una trappola: aggireranno le barriere investendo in stabilimenti in Europa. Stabilimenti che verranno in parte finanziati da sovvenzioni statali, nei Paesi a basso costo».

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