Mondo
Meta reintegra Trump dopo la sospensione di due anni

Nick Clegg, il presidente dei global affairs di Meta, ha spiegato che gli account Facebook e Instagram di Trump, sospesi due anni fa dopo l’assalto al Congresso, saranno riattivati: «non vogliamo intralciare il dibattito». L’ex presidente, che su Twitter non è tornato dopo il reintegro, tuona su Truth, il suo nuovo social preferito: «non sarebbe mai dovuto accadere».
La sospensione è finita. Dopo 2 anni l’influencer Donald Trump potrà tornare a postare per i suoi follower sui social di Meta, Facebook ed Instagram. Gli account dell’ex presidente degli Stati Uniti d’America furono sospesi in seguito all’attacco al Congresso, nel 2021. Nick Clegg, il presidente dei global affairs di Meta, ha affermato: «In via generale non vogliamo intralciare il dibattito sulle nostre piattaforme, soprattutto in un contesto di elezioni democratiche. Il pubblico deve essere in grado di ascoltare quello che i politici hanno da dire – il bello, il brutto e il cattivo – in modo da poter effettuare scelte informate ai seggi».
In merito alla sospensione Clegg ha spiegato che si trattava di una «decisione straordinaria presa in circostanze straordinarie» e che il reintegro di Trump su Meta «non vuol dire che non vi sono limiti a quello che si può dire sulla nostra piattaforma. Quando c’è un rischio chiaro di danni al mondo reale allora agiamo».
«Non sarebbe mai dovuto accadere a un presidente in carica» tuona su Trump su Truth, il social sul quale si è spostato dopo la sospensione da Meta e Twitter. Anche il social dei cinguettii l’ha reintegrato, ma Trump non ha ancora riattivato il proprio profilo. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale del 2024 però, è probabile che Trump decida di riattivare i suoi account per rivolgersi ad una platea superiore.
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Incriminato Donald Trump: «sono un perseguitato»

E’ la prima volta che un ex presidente degli Stati Uniti d’America viene incriminato come Donald Trump. Secondo le accuse avrebbe usato i soldi della campagna elettorale per pagare il silenzio di una pornostar con la quale aveva avuto una relazione. Martedì dovrebbe presentarsi in Tribunale. Timori per una nuova “Capitol Hill”.
La notizia era attesa da giorni. Il Grand Giury di New York e ha infine incriminato Donald Trump per la vicenda legato al pagamento di Stormy Daniels, la pornostar con cui ebbe una relazione dopo il matrimonio con Melania. L’ex presidente statunitense Trump, il primo ad essere incriminato, si è sempre mosso per trasformare la sua vicenda giudiziaria in uno show mediatico ed è già passato al contrattacco: «Sono un perseguitato,» ha commentato. Il tycoon sostiene che si tratti di una macchinazione per impedirgli una nuova scalata alla Casa Bianca e si è spinto perfino a ipotizzare che ci possa essere Joe Biden dietro a tutto questo.
Martedì dovrebbe comparire in Tribunale per l’incriminazione formale, dopodiché dovrebbe essere rimesso in libertà su cauzione. Al momento non si sono verificate grosse reazioni alla notizia, ma si teme che nel giorno in cui comparirà in aula, possano verificarsi nuovi scontri, simili a quelli avvenuti in occasione dell’assalto di Capitol Hill.
Secondo le accuse Trump avrebbe pagato, ai tempi della sua prima candidatura, la pornostar Stormy Daniels per tacere sulla loro relazione, successiva la matrimonio con Melania. La notizia avrebbe ovviamente avuto un impatto negativo sulla sua campagna elettorale. Di per sé quanto fatto da Trump non è illegale, ma secondo l’accusa avrebbe pagato l’attrice hard in nero ed usando i fondi per la campagna elettorale.
La vicenda risale a 7 anni fa, un’eternità per la Giustizia Americana. In mezzo i quattro anni da Potus, presidente degli Stati Uniti, e la pandemia hanno dilatato i tempi di una vicenda che martedì potrebbe inaugurare un nuovo, drammatico, capitolo.
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Mostra foto del David agli studenti, preside costretta a dimettersi: «è pornografia»

La preside di un istituto californiano è stata costretta a rassegnare le dimissioni dopo le proteste dei genitori degli studenti, ai quali ha mostrato, durante una lezione di Storia dell’Arte, una foto del David di Michelangelo, giudicata «pornografia».
Ma non è che la “cancel culture” ci sta sfuggendo di mano? O forse stiamo solo impazzendo tutti. O almeno, è quello a cui si sarebbe portati a pensare valutando una storia che arriva dalla California, dove una preside di una scuola media è stata costretta a rassegnare le dimissioni per placare uno scandalo: ha mostrato foto pornografiche ai suoi studenti minorenni. Fino a qui sarebbe tutto comprensibili, anzi appare quasi fin troppo blanda la contromisura nei confronti della docente pervertita, se non fosse che la pornografia in questione era una foto del David di Michelangelo.
Il David è una delle opere più mirabili dello scibile umano, massima espressione della scultura e simbolo della perfezione dei canoni estetici. Ma il buon vecchio David ha una colpa: beffardo, mostra le pudenda.
E su questa sua ben visibile inclinazione all’esibizionismo, più che sulla squisitezza dei dettagli impressi nel marmo e nella storia, si sono soffermati i genitori degli alunni dell’istituto, che hanno chiesto, e ottenuto, le dimissioni della preside. Ma tra le opere di quello sporcaccione di Michelangelo, non c’è solo il David nel mirino dei genitori anti pornografia. Anche la Creazione di Adamo avrebbe suscitato malcontento, mentre la Venere di Botticelli ha generato scandalo.
Insomma, la California in questo episodio è apparsa veramente distante dal Rinascimento Fiorentino.
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L’Ungheria di Orbán: «noi non arresteremmo Putin»

L’ennesimo distinguo dell’Ungheria di Orbán rispetto alla linea dei Paesi Ue in tema di guerra in Ucraina, che ha dichiarato che non darebbe seguito all’arresto Putin disposto dalla corte internazionale, costituisce una frattura sul piano del diritto internazionale. L’Aia insiste: «Ungheria ha ratificato trattato, ha obbligo di cooperare».
In tema di sanzioni alla Russia, o quantomeno di condanne verso l’invasione d’Ucraina, l’Ungheria si è dimostrato il Paese più tiepido, tra i partner europei. Anche prima dell’inizio della “operazione speciale” spesso la linea di Budapest viaggiava parallelamente a quella di Bruxelles, senza incontrala mai. Ma la dichiarazione del capo di gabinetto di Orbán, Gergely Gulyás, rappresentano una vera e propria frattura sul piano internazionale. L’Ungheria infatti, in base a quanto dichiarato, non darebbe seguito al mandato d’arresto nei confronti di Putin spiccato dal Tribunale Internazionale, qualora il presidente russo mettesse piede in terra ungherese.
Al di là della divergenza di opinioni, questa posizione rappresenterebbe una trasgressione ai doveri a cui sarebbe sottoposta l’Ungheria, che ha ratificato l’ingresso nella Corte Penale internazionale. E’ sempre Gulyás a spiegare che il trattato però non vincolante per Budapest dal momento che «non è stato ancora promulgato poiché contrario alla Costituzione».
Una tesi però smentita da una fonte interna al Tribunale de l’Aia, citata da Ansa, secondo la quale: «ha ratificato il trattato nel 2001 e ha l’obbligo di cooperare con la Corte nel quadro dello Statuto di Roma».
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