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Cronaca

La ragazza che ha avuto una relazione con Impagnatiello: «mi ha convinto ad abortire, mi ha detto che Giulia era bipolare»

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alessandro impagnatiello ha confessato l'omicidio della compagna Giulia Tramontano

La ragazza che per qualche mese ha avuto, inconsapevolmente, una relazione parallela con Alessandro Impagnatiello ha fornito oggi la propria testimonianza al processo.

I mesi di relazione che lei non sapeva essere parallela, la gravidanza e l’aborto, la scoperta di Giulia attraverso le foto trovate su un tablet, la paternità negata con un falso test del Dna, l’incontro con la vittima. E’ una testimonianza difficile, che procede tra interruzioni dettate dallo shock, quella della ragazza italo-inglese di 23 anni che ha avuto una relazione con Alessandro Impagnatiello, imputato per l’omicidio della fidanzata Giulia Tramontano.

Protetta da un paravento per ragioni di sicurezza, la ragazza ripercorre quei mesi rivelatisi drammatici. La giovane ha raccontato di aver conosciuto Impagnatiello a lavoro e di aver avuto una relazione con lui durata qualche mese. «All’inizio sapevo che Giulia viveva in casa con lui, ma da dicembre, gennaio scorso in poi mi diceva che non stavano più insieme. Quando l’ho conosciuto ero consapevole che era fidanzato, ma poi mi aveva detto che si erano lasciati, che non voleva più stare con lei e che non erano più felici nella relazione». Poi ha scoperto per caso che invece i due convivevano ancora, trovando alcune foto. Da questa prima crepa, ha cominciato a sgretolarsi il muro di bugie di Impagnatiello.

«Ho capito, poi, che Giulia era ancora presente verso marzo, aprile e che lui non era da solo, quando era andato in vacanza a Ibiza e ho visto sul suo telefono delle sue foto con lei». La ragazza ha scoperto poi della gravidanza di Giulia, proprio nei mesi in cui lei aveva interrotto la sua. Era stato Impagnatiello a convincerla ad abortire, continuando a negare di essere il padre del bambino di Giulia. Il barman le ha raccontato che era «bipolare» e che minacciava di «uccidersi». Per questo era costretta a starle vicino. Per convincerla le ha anche mostrato un test del Dna, rivelatosi fasullo: «Mi ha dato il test in una bustina. Ho capito subito che fosse falso, poi infatti ho trovato il file Excel usato per crearlo».

«Non sapendo come gestire la situazione volevo aiutare Giulia, farle capire, darle qualcosa di concreto e farle capire cosa stava succedendo». La ragazza decide di contattarla: «Ero convinta perché ho detto “prima di partorire lei deve sapere chi ha davanti”. Lui mi ha detto “chiamala se non mi credi”, ma io avevo già intenzione di farlo».

«Lui ha scoperto che l’avevo sentita ed era inc… con me, perché aveva capito che era finita. Entrambe volevamo che lui partecipasse all’incontro ma lui è uscito prima dal lavoro per non farlo». Le due ragazze si vedono e rivelano l’una all’altra le bugie che Impagnatiello le aveva rifilato: «Le ho raccontato di quando ci siamo conosciuti, della nostra relazione: da una parte Giulia non era scioccata, le ho solo confermato i dubbi che aveva».

Dopo quell’incontro, quella stessa sera, Impagnatiello uccise Giulia Tramontano con 32 coltellate, cercando poi di sbarazzarsi del suo corpo bruciandolo, senza riuscirci.

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Alpinisti bloccati sul Monte Bianco: «veniteci a prendere o moriremo assiderati»

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alpinisti bloccati sul monte bianco

I loro telefoni non sono più raggiungibili. Sono partiti sabato, nonostante le previsioni meteo non particolarmente favorevoli, e sono stati sorpresi dalla nebbia e dal gelo durante la discesa. «Non sappiamo dove andare ed abbiamo freddo» una delle ultime comunicazioni. Soccorsi resi difficili dalle condizioni metereologiche. Dispersi anche due turisti coreani, dei quali non si conosce nemmeno la posizione.

Due alpinisti italiani di quarant’anni dalle 17:30 di sabato pomeriggio sono rimasti bloccati sul Monte Bianco. Avevano raggiunto la cima ed avevano cominciato la discesa, quando sono stati sorpresi dal maltempo, a circa 200 metri dalla vetta, sul versante francese. Si troverebbero a circa 4.600 metri. LE temperature sono in drastico calo e nebbia e forte vento impediscono loro di vedere e di spostarsi. Si troverebbero infatti a circa 300 metri di altezza da un rifugio d’emergenza, che però non sarebbero in grado di raggiungere. I tentativi di recuperarli per il momento non sono andati a buon fine.

I due alpinisti bloccati sul Monte Bianco, dei quali non sono state rese note le generalità, sono stati descritti come esperti di alta quota, ma non professionisti della montagna. I loro famigliari sono stati avvisati ed alcuni hanno già raggiunto Chamonix. Si sono mossi alla volta della vetta, nonostante le previsioni non fossero delle migliori. Sono partiti dal Rifugio des Cosmiques a quota 3.600 metri la notte tra venerdì e sabato. Probabilmente sono arrivati a 4.800 metri prima di prendere la discesa. Lì sono stati sorpresi dal calo della temperatura e dalla nebbia.

«Non vediamo nulla, veniteci a prendere, rischiamo di morire congelati» avrebbero detto durante l’ultima telefonata. I loro telefoni probabilmente si sono scaricati e non risultano più raggiungibili. In un messaggio hanno reso noto di non potersi muovere: «Siamo finiti in un crepaccio, ma ne siamo usciti, ma adesso non sappiamo bene dove siamo e abbiamo freddo, tanto freddo. Da dove scendiamo?». Trecento metri più in basso c’è il rifugio Vallot, un bivacco di emergenza con coperte.

I tentativi di recuperarli sono immediatamente scattati, ma non sono andati a buon fine. I soccorritori francesi del Pghm, Peloton de gendarmerie de haute montagne, hanno provato a raggiungerli ieri. Una squadra partita alle prime luci dell’alba. si è dovuta fermare all’altezza del Dome du Goûter a 4.200 metri a cause delle condizioni metereologiche. Stesso discorso per il tentativo di stamani alle 7. Le operazioni verranno riprese non appena il tempo lo consentirà. Anche gli elicotteri aspettano di potersi alzare in volo. Il Soccorso Alpino valdostano è in costante contatto con le famiglie degli alpinisti italiani coinvolti.

Mancano all’appello anche due escursionisti corani, dei quali si sono perse le tracce da sabato, ma di loro i soccorritori non conoscono nemmeno la posizione.

 

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Strage di Paderno Dugnano, il ragazzo che ha sterminato la famiglia: «non me lo so spiegare»

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Il 17enne è stato sentito dagli inquirenti ed ha avuto un colloquio con il suo avvocato. Non ha saputo indicare un movente preciso per il triplice omicidio, ma ha parlato di «malessere» e di voler «vivere in un modo libero».

Col passare delle ore sono emersi i dettagli relativi alla dinamica della strage di Paderno Dugnano, dove un ragazzo di 17 anni ha sterminato a coltellate il padre, la madre ed il fratello di 12 anni. Ha spiegato nel dettaglio agli inquirenti come si sono svolti i fatti. Ha detto di aver atteso che tutti dormissero prima di agire. Ha raccontato che il piano inizialmente prevedeva di addossare la colpa del triplice omicidio alla madre. Ha anche detto che ha cercato di porre in fretta fine alle loro sofferenze e che non immaginava che potesse essere così doloroso. Ma non ha ancora saputo spiegare il perché li abbia uccisi.

Ai pm che lo hanno interrogato ha detto di provare un senso di «malessere», di sentirsi «oppresso», di i essere convinto che uccidendo la sua famiglia avrebbe «potuto vivere in modo libero». Ha anche accennato ad una sorta di «disagio» e di «angoscia esistenziale». Ma senza un movente chiaro: «Non mi so spiegare cosa mi sia scattato quella sera – aggiunge dal carcere – purtroppo è successo».

Ha però spiegato bene come si sono svolti i fatti. Quando tutti dormivano è sceso in cucina ed ha afferrato un coltello. E’ entrato nella stanza dove il fratellino dormiva. «Pensavo che una coltellata sarebbe bastata a uccidere. Poi mi sono reso conto che non era così». I rumori attirano i genitori. Colpisce anche la madre. Il padre non capisce, dice al figlio di chiamare i soccorsi. E quando si è chinato sul copro del dodicenne, il primogenito lo ha colpito «la prima volta alle spalle». I colpi sono stati inferti «soprattutto nella zona del collo». Per uccidere «perché non volevo che soffrissero». Poi ha chiamato il 112. «Mio padre ha accoltellato mia madre e mio fratello». Il centralinista chiede le loro condizioni: «Sono vivi?» «No, neanche mio padre — risponde il ragazzo —. Sono morti, sono morti». A quel punto l’operatore chiede se «si è ucciso». «No, l’ho ucciso io». Po ha aspettato l’arrivo dei soccorsi. I Carabinieri lo hanno trovato in strada, seduto sul muretto della cancellata, con in mano il coltello.

Da allora, è sorto il grande dubbio. Cosa ha spinto un ragazzo di 17 anni ad uccidere la sua famiglia? Le ipotesi avanzate sono state diverse. Il ragazzo recentemente aveva espresso l’intenzione di andare a combattere in Ucraina, ma è stato lui stesso a dire che il conflitto in est Europa non ha niente a che fare con la strage di Paderno Dugnano. La colpa non sarebbe nemmeno dei videogiochi violenti, come da qualcuno sostenuto. Secondo un suo amico non aveva una grande passione. E nemmeno l’esame per riparare il debito in matematica, prevista proprio per il giorno successivo alla strage, sembrava preoccuparlo molto. Qualcuno ha tirato in ballo anche i Beatles, come nel caso di Charles Manson e l’eccidio di Cielo Drive. E’ stato il ragazzo a dire che negli tempi ascoltava a ripetizione una canzone dei Fab Four. Ma il giovane non ascoltava la frenetica “Helter Skelter”, bensì la struggente “The Long and Winding Road”, che parla di una strada fredda, tortuosa e piovosa, che conduce alla casa di una donna amata in passato. Ed avrà pur fatto litigare MCartney e Lennon e decretato la fine della band, ma difficilmente può aver portato a compiere un triplice omicidio.

So che tutti vi chiedete il perché di quello che è successo, è la grande domanda ma dobbiamo accontentarci di scavare. Un movente sarebbe tranquillizzante. Ma da un punto di vista giuridico al momento non c’è, e non è detto che ci sarà. Da un punto di vista sociologico le indagini sono aperte», ha detto Sabrina Ditaranto, reggente della procura per i minorenni di Milano.

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Omicidio Sharon Verzeni, il 31enne fermato ha confessato

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E’ “l’uomo in bicicletta” il presunto responsabile dell’omicidio di Sharon Verzeni. Ad un mese dal delitto, l’uomo è stato fermato ed ha confessato.

Dopo un mese di piste a vuoto e ricerche apparentemente senza esito, all’improvviso le indagini hanno subito un’accelerazione. Ieri sera un uomo è stato fermato. Poche ore dopo «ha reso piena confessione». Il colpevole dell’omicidio di Sharon Verzeni, la donna lasciata morire per strada lo scorso 30 luglio a Terno d’Isola, nel bergamasco, è “l’uomo in bicicletta”. Si chiama Moussa Sangare, ha 31 anni, italiano, disoccupato. Avrebbe ucciso «senza motivo».

Maria Cristina Rota, procuratrice aggiunta a Bergamo, durante una conferenza stampa ha rilasciato alcune dichiarazioni: «Stanotte al termine di serratissime indagini siamo pervenuti a identificare il signore in bicicletta che nel corso della nottata ha reso prima spontanee dichiarazioni poi una piena confessione». Durante l’interrogatorio, Moussa Sangare ha detto di avere «avuto un raptus improvviso». «Non so spiegare perché sia successo, l’ho vista e l’ho uccisa», ha affermato il trentunenne. Sangare è nato a Milano, ma la famiglia è originaria del Mali. Vive a Suisio, distante appena cinque chilometri dal luogo del delitto.  È accusato di omicidio volontario premeditato.

La procuratrice spiega che l’indagine è «stata agevolata dalla collaborazione di due cittadini stranieri, ma regolari sul territorio italiano, che si sono presentati spontaneamente presso la caserma dei carabinieri e hanno riferito ciò che sapevano. Grazie alla loro dichiarazione e all’analisi di tantissime telecamere è stato possibile tracciare l’intero percorso fatto dal ciclista che è stata poi scenario del crimine». Si tratta di due «cittadini stranieri di origine marocchine inseriti nel territorio, incensurati, due lavoratori, due onesti cittadini che si trovavano sul luogo del delitto e che in realtà inizialmente si sono presentati per segnalare un’altra presenza strana – ha proseguito – ma la prima segnalata non era strana e poi è stata segnalata la presenza del ciclista su cui si è lavorato».

Moussa Sangare quel giorno è uscito per uccidere. Lo dimostrerebbero i 4 coltelli che aveva con sé. Ed il fatto che poco prima ha minacciato due ragazzini minorenni. Sangare avrebbe infatti «come da lui stesso dichiarato, puntato il coltello contro due ragazzini di 15-16 anni, minacciandoli». La procuratrice Rota invita i due ragazzi a «presentarsi in una caserma dei carabinieri o al comando provinciale per riferire se erano presenti e se effettivamente si è verificata questa minaccia».

Dopo aver sventolato il coletto in direzione dei due giovani, avrebbe incontrato Sharon Verzeni e l’avrebbe seguita. Ed avrebbe deciso di colpirla. «Non c’è stato alcun movente, non si conoscevano e non hanno mai avuto contatti» ha reso noto la procuratrice che ha aggiunto: «sentiva l’impulso di accoltellate, sentiva il bisogno di compiere questo gesto. La signora ha avuto la sfortuna di passare di lì, si è trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato».

Dopo essere stata raggiunta da 4 coltellate, è stata la stessa vittima a chiamare il 118: «Aiuto! Mi hanno accoltellata gridato disperata. I soccorsi non hanno fatto in tempo. Dopo un mese di ricerche infruttuose, negli ultimi giorni gli inquirenti hanno cominciato a stringere il cerchio intorno all’uomo immortalato mentre si allontanava velocemente dalla scena del delitto. Dopo essere stato individuato e fermato, “l’uomo in bicicletta” ha ammesso le sue colpe.

«Né durante le dichiarazioni spontanee né durante l’interrogatorio Moussa Sangare ha mai dimostrato di essere sotto l’effetto di sostanze alcoliche o di droghe» aggiunge ancora Rota, che afferma che l’uomo si è detto “dispiaciuto per quello che ha fatto». Le sue dichiarazioni «hanno poi consentito di recuperare sia gli abiti che lui indossava, sia dei coltelli – uno in particolare, che aveva seppellito, già nella disponibilità del Ris – che riteniamo sia il coltello utilizzato per uccidere Sharon. Lo riteniamo in base alla lunghezza e alla larghezza della lama che è compatibile con i segni riscontrati dal medico legale sul corpo».

I famigliari hanno ben accolto la notizia della sua cattura: «Ci solleva e spazza via anche tutte le e speculazioni che sono state fatte sulla vita di Sharon».

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