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Ragazzina di 12 anni uccisa da due coetanee in Germania

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Il movente dell’omicidio della ragazzina uccisa in Germania potrebbe essere una presa in giro. Le giovani assassine hanno confessato dopo 11 giorni. Non saranno incriminate perché di età inferiore ai 14 anni. Montano le proteste: molti chiedono di abbassare l’età della responsabilità penale e di rendere note le generalità delle due.

Un racconto dell’orrore proveniente dalla Germania, accende la discussione sul sistema penale tedesco e sulle norme in materia di privacy. Nei dintorni di Freundeberg, nella regione del Nord-Reno Vestfalia, una ragazzina di 12 anni è stata uccisa da due coetanee, due ragazzine di 12 e 13 anni. Della vicenda non si conoscono molti dettagli a causa delle norme molto stringenti in materia di privacy che devono rispettare i giornali tedeschi.

Si sa però che la vittima si chiamava Luise e che stava tornando a casa dopo aver fatto visita ad un amico. L’ultima volta che è stata vista è stato due sabati fa, intorno alle 17:30. Il suo corpo è stato trovato la domenica successiva. Poco distante è stato trovato anche il coltello utilizzato per ucciderla con «numerose coltellate». Era nel bosco a due chilometri dalla casa dell’amico, ma nella direzione opposta a quella di casa. L’ipotesi sul movente è agghiacciante: sarebbe stata una vendetta per una presa in giro subita da una delle due assassine.

Le due hanno confessato dopo 11 giorni, dopo essere state messe alle strette dagli inquirenti, che avrebbero escluso la partecipazione di qualche adulto o moventi di tipo sessuale. A quanto si apprende le due non saranno incriminate, perché di età inferiore ai 14 anni, ma saranno affidate ad una struttura protetta.

Sui social, montano le proteste di diversi cittadini tedeschi, non solo della zona, ma di tutta Germania, che vorrebbero sapere il nome delle assine della ragazzina di 12 anni uccisa e che chiedono di abbassare l’età della responsabilità penale a 10 anni.

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Incriminato Donald Trump: «sono un perseguitato»

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perquisita la residenza Donald Trump in Florida

E’ la prima volta che un ex presidente degli Stati Uniti d’America viene incriminato come Donald Trump. Secondo le accuse avrebbe usato i soldi della campagna elettorale per pagare il silenzio di una pornostar con la quale aveva avuto una relazione. Martedì dovrebbe presentarsi in Tribunale. Timori per una nuova “Capitol Hill”.

La notizia era attesa da giorni. Il Grand Giury di New York e ha infine incriminato Donald Trump per la vicenda legato al pagamento di Stormy Daniels, la pornostar con cui ebbe una relazione dopo il matrimonio con Melania. L’ex presidente statunitense Trump, il primo ad essere incriminato, si è sempre mosso per trasformare la sua vicenda giudiziaria in uno show mediatico ed è già passato al contrattacco: «Sono un perseguitato,» ha commentato. Il tycoon sostiene che si tratti di una macchinazione per impedirgli una nuova scalata alla Casa Bianca e si è spinto perfino a ipotizzare che ci possa essere Joe Biden dietro a tutto questo.

Martedì dovrebbe comparire in Tribunale per l’incriminazione formale, dopodiché dovrebbe essere rimesso in libertà su cauzione. Al momento non si sono verificate grosse reazioni alla notizia, ma si teme che nel giorno in cui comparirà in aula, possano verificarsi nuovi scontri, simili a quelli avvenuti in occasione dell’assalto di Capitol Hill.

Secondo le accuse Trump avrebbe pagato, ai tempi della sua prima candidatura, la pornostar Stormy Daniels per tacere sulla loro relazione, successiva la matrimonio con Melania. La notizia avrebbe ovviamente avuto un impatto negativo sulla sua campagna elettorale. Di per sé quanto fatto da Trump non è illegale, ma secondo l’accusa avrebbe pagato l’attrice hard in nero ed usando i fondi per la campagna elettorale.

La vicenda risale a 7 anni fa, un’eternità per la Giustizia Americana. In mezzo i quattro anni da Potus, presidente degli Stati Uniti, e la pandemia hanno dilatato i tempi di una vicenda che martedì potrebbe inaugurare un nuovo, drammatico, capitolo.

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Mostra foto del David agli studenti, preside costretta a dimettersi: «è pornografia»

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La preside di un istituto californiano è stata costretta a rassegnare le dimissioni dopo le proteste dei genitori degli studenti, ai quali ha mostrato, durante una lezione di Storia dell’Arte, una foto del David di Michelangelo, giudicata «pornografia».

Ma non è che la “cancel culture” ci sta sfuggendo di mano? O forse stiamo solo impazzendo tutti. O almeno, è quello a cui si sarebbe portati a pensare valutando una storia che arriva dalla California, dove una preside di una scuola media è stata costretta a rassegnare le dimissioni per placare uno scandalo: ha mostrato foto pornografiche ai suoi studenti minorenni. Fino a qui sarebbe tutto comprensibili, anzi appare quasi fin troppo blanda la contromisura nei confronti della docente pervertita, se non fosse che la pornografia in questione era una foto del David di Michelangelo.

Il David è una delle opere più mirabili dello scibile umano, massima espressione della scultura e simbolo della perfezione dei canoni estetici. Ma il buon vecchio David ha una colpa: beffardo, mostra le pudenda.

E su questa sua ben visibile inclinazione all’esibizionismo, più che sulla squisitezza dei dettagli impressi nel marmo e nella storia, si sono soffermati i genitori degli alunni dell’istituto, che hanno chiesto, e ottenuto, le dimissioni della preside. Ma tra le opere di quello sporcaccione di Michelangelo, non c’è solo il David nel mirino dei genitori anti pornografia. Anche la Creazione di Adamo avrebbe suscitato malcontento, mentre la Venere di Botticelli ha generato scandalo.

Insomma, la California in questo episodio è apparsa veramente distante dal Rinascimento Fiorentino.

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L’Ungheria di Orbán: «noi non arresteremmo Putin»

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L’ennesimo distinguo dell’Ungheria di Orbán rispetto alla linea dei Paesi Ue in tema di guerra in Ucraina, che ha dichiarato che non darebbe seguito all’arresto Putin disposto dalla corte internazionale, costituisce una frattura sul piano del diritto internazionale. L’Aia insiste: «Ungheria ha ratificato trattato, ha obbligo di cooperare».

In tema di sanzioni alla Russia, o quantomeno di condanne verso l’invasione d’Ucraina, l’Ungheria si è dimostrato il Paese più tiepido, tra i partner europei. Anche prima dell’inizio della “operazione speciale” spesso la linea di Budapest viaggiava parallelamente a quella di Bruxelles, senza incontrala mai. Ma la dichiarazione del capo di gabinetto di Orbán, Gergely Gulyás, rappresentano una vera e propria frattura sul piano internazionale. L’Ungheria infatti, in base a quanto dichiarato, non darebbe seguito al mandato d’arresto nei confronti di Putin spiccato dal Tribunale Internazionale, qualora il presidente russo mettesse piede in terra ungherese.

Al di là della divergenza di opinioni, questa posizione rappresenterebbe una trasgressione ai doveri a cui sarebbe sottoposta l’Ungheria, che ha ratificato l’ingresso nella Corte Penale internazionale. E’ sempre Gulyás a spiegare che il trattato però non vincolante per Budapest dal momento che «non è stato ancora promulgato poiché contrario alla Costituzione».

Una tesi però smentita da una fonte interna al Tribunale de l’Aia, citata da Ansa, secondo la quale: «ha ratificato il trattato nel 2001 e ha l’obbligo di cooperare con la Corte nel quadro dello Statuto di Roma».

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